Au hasard Balthazar: il ritorno al cinema del miglior Bresson
Robert Bresson torna al cinema restaurato con l’asino Balthazar testimone del mondo senza grazia e redenzione, la nostra recensione e qualche curiosità senza tempo
I risvegli primaverili del mese di maggio si estendono alla settima arte, pronta a riportare sul grande schermo uno dei protagonisti della rinascita del cinema francese nel secondo dopoguerra.
Robert Bresson torna in sala con l’analisi della condizione etica dell’umanità, all’apice del suo temperamento artistico rigoroso ed essenziale con ‘Au hasard Balthazar‘ e ‘Mouchette‘, nelle due versioni restaurate, ma non epurate, dal tessuto narrativo che oppone grazia, solitudine e fede, alla violenza brutale e amorale della modernità/umanità.
Il silenzio che pervade il viaggio cinematografico di Bresson, dagli esordi in piena occupazione con La conversa di Belfort (Les Anges du péché, 1943) alle pulsioni messe a nudo da L’Argent (1983), affida allo sguardo mesto dell’asino Balthazar, il compito di osservare il mondo senza grazia e redenzione, facendosi carico dello smarrimento dell’innocenza e delle coordinate affettive, con acquiescenza e un misticismo quasi biblico, presente sin dal titolo del film, preso in prestito dal motto araldico dei conti di Baux-de-Provence che facevano risalire la propria origine al “re magio” Baldassare.
“Quando volle raccontare la storia dell’asinello Balthazar, Bresson si ricordò del motto dei principi di Baux, in Provenza, ‘Au Hasard Balthazar’, un gioco di parole fra Baux e Hasard, a cui sottrasse tuttavia l’aspetto guascone per recuperare il senso di spaesamento dell’hasard. Una libera traduzione potrebbe configurarsi come: ‘Alla deriva Balthazar’. Poiché proprio questo è il senso della vita dell’asinello: la sua purezza e la sua bontà non hanno spazio in un mondo ormai privato della Grazia. Volendo, si può anche vedere nella storia di Balthazar la più profonda e suggestiva metafora della passione di Cristo.”
Ispirandosi a L’Idiota di Dostoevskij, Bresson investe il calvario esistenziale dell’asino della purezza e innocenza di un povero ‘cristo’, sottoposto ad ogni genere di angheria da diversi padroni, come animale da soma, attrazione da circo, oggetto di pubblico dileggio e intima offesa della sua natura, sottomessa alla legge del più forte, o forse solo del più crudele.
Un campionario di soprusi causato dall’umanità schiava di vizi e frustrazioni, che Balthazar incontra nel corso della vita, sin dall’infanzia, strappata via con una frustrata insieme all’affettuosa Marie (Anne Wiazemsky), destinata a condividere altrettante violenze e tormenti, in un paesino francese dei Pirenei, al confine con la Spagna.
Una ragazza tormentata, sul punto di perdersi, tra peccato, invidie e venialità degli uomini, dopo aver perso la sua innocenza per mano della bramosia del teppista Gérard (François Lafarge).
Quella mano che stinge la nuca e il fianco di Marie, con un’urgenza priva di sentimenti, quando lei non è ancora cosciente del suo desidero, prima che le lacrime gli solchino il viso, il cuore si indurisca con miseria e infelicità, al punto da arrivare quasi a vendersi al vecchio e avido commerciante di grano, interpretato dallo scrittore Pierre Klossowski, manifestando la scomparsa dei teneri sentimenti provati da bambina per il parigino Jacques (Walter Green) in vacanza nel paesino basco.
“Tu vedi il sentiero, la panchina, i nostri nomi sulla panchina, i giochi con Balthazar… Ma io non vedo niente. Non ho tenerezza, né cuore, né sentimenti. Le tue parole non mi fanno più effetto. La dichiarazione d’amore e la promessa infantile che ci siamo fatti, erano di un mondo immaginario. Non era la realtà. La realtà è un’altra cosa.”
L’infantile “patto d’amore” con il quale Jacques aveva affidato Balthazar a Marie si spezza, quando lei indispettita lo vende al fornaio che lo usa per le consegne del pane, assumendo come garzone Gèrard.
Dopo ogni genere di maltrattamento subito dall’amorale teppista, il povero animale passa dal barbone alcolizzato Arnold (Jean-Claude Guilbert) al circo che lo esibisce come ciuco matematico, dall’asta all’avaro fabbricante di acqua minerale che lo aggioga alla ruota di un pozzo.
La musica di Schubert accompagna il rifiuto dell’asino di bere l’acqua offerta dal suo nuovo padrone, preferendo l’acqua piovana che scende da una grondaia dentro a un secchio e solo dopo aver assistito all’indurimento di Marie farà ritorno nella casa dove è nato.
Saranno poi le bassezze della natura umana che non risparmia violenza e meschinità, a ricondurlo di nuovo nelle mani crudeli di Gèrard che lo carica di merce di contrabbando e spinge al confine con la Spagna, dove i doganieri lo feriscono e noi lo guardiano avanzare fuori dalla boscaglia per morire in pace, all’alba, in mezzo alle pecore al pascolo, al ritmo della struggente Sonata n° 20 di Schubert.
Il viaggio sconvolgente dell’asino corre parallelo a quello di Marie, dall’infanzia felice di entrambi al tentativo di fuga adolescenziale, entrambi affamati e martirizzati da Gérard, mentre cambiano amanti e padroni, vengono violentati e uccisi, perché la liberazione è raggiunta solo con l’estremo distacco in un mondo governato dal male, dove basta una radiolina a spezzare il silenzio e la sintonia con i paesaggi e i ritmi del passato, con il suo gracchiare di futile di futuro votato alla distruzione.
La purezza dell’asino Balthazar è destinata a morire, come l’assurda onestà del padre di Marie, mentre il nuovo che resiste ha la forma e l’afrore della miseria umana.
Il viaggio senza speranza, più cupo e ‘puro’ di questo Maestro degli afflati cinematografici, segnato da dialoghi concisi e la consueta attenzione a quei particolari che danno al cinema il sapore devastante della realtà, torna invece al cinema con il restauro di Argos Films e i presupposti per sorprendenti risvegli.
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Au hasard Balthazar (Francia-Svezia/1966) di Robert Bresson. Interpreti: Anne Wiazemsky (Marie), François Lafarge (Gérard), Walter Green (Jacques), Nathalie Joyaut (la madre di Marie), Philippe Asselin (il padre di Marie), Jean-Claude Guilbert (Arnold), Pierre Klossowski (il venditore di granaglie). Di nuovo in sala nella versione restaurata nel 2015 da Argos Films, con Il Cinema Ritrovato, dal 2 maggio 2016, tutti i lunedì e martedì del mese.
Au hasard Balthazar: curiosità
Au hasard Balthazar ha avuto una gestazione di quasi quindici anni e una storia travagliata. Quasi tutti i produttori francesi dell’epoca lo hanno rifiutato, nonostante sia diventato uno dei film più osannati dalla critica.
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“La gestazione di Au hasard Balthazar è lunga e laboriosa. La sua idea iniziale risale ai primi anni ’50: un’idea balenata a Bresson come una visione, la visione di una gran testa d’asino che riempie tutto lo schermo, invadente e persistente. Solo una quindicina di anni dopo l’idea può concretizzarsi in qualcosa che è molto prossimo alla visione originaria: effettivamente la testa di Balthazar, e con essa il corpo greve, tutto nero e peloso (solo il muso ha una macchia bianca), occupa interamente la scena di Au hasard Balthazar, dall’inizio alla fine, dalla nascita alla morte, facendo da perno a una struttura compositiva perfettamente circolare e conchiusa in se stessa.”
Sergio Arecco, Robert Bresson. L’anima e la forma, Le Mani, Genova 1998
Il film scritto e diretto da Robert Bresson ha vinto il Premio Ciudad de Valladolid a Seminci 1967.
“Il mio film è partito da due idee che si completano. In primo luogo: mostrare le tappe della vita di un asino simili a quelle della vita di un uomo. L’infanzia: le carezze. L’età matura: il lavoro. Il talento o il genio: l’asino sapiente. Il periodo mistico che precede la morte: l’asino che porta le reliquie. In secondo luogo: quest’asino passa nelle mani di diversi padroni, che rappresentano ciascuno un vizio umano: gola, accidia, superbia, ira… Esso ne soffre in modo diverso. Li guarda con l’occhio di un giudice. (…) Balthazar porta con sé, forzatamente, l’erotismo greco, e a un tempo, la spiritualità e il misticismo biblici.”
Robert Bresson, da Robert Bresson: une patience d’âme, intervista di Paul Gilles, “Arts”, 3 novembre 1965
Il film è una produzione Anatole Dauman, Mag Bodard per Parc Films, Argos Films, Athos Films, AB Svensk Filmindustri.
Nelle vesti di attore anche anche il pittore, romanziere e filosofo Pierre Klossowski, fratello maggiore di Balthus.
Anne Wiazemsky, al suo debutto cinematografico, sul set successivo conoscerà Jean-Luc Godard, diventandone attrice-feticcio e moglie per dodici anni, lavorando negli anni ’70 anche per registi italiani del calibro di Pier Paolo Pasolini (Teorema e Porcile), Marco Ferreri (Il seme dell’uomo) e Carmelo Bene (Capricci).
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Jean-Luc Godard: Ho l’impressione che questo film per lei corrisponda a qualcosa di molto antico, qualcosa a cui pensava da forse quindici anni, e che tutti i film che ha fatto in seguito siano stati fatti in attesa di questo. Si ha l’impressione di ritrovare tutti gli altri suoi film in Balthazar. In realtà sono gli altri film che prefiguravano questo, come se ne fossero stati dei frammenti.
Robert Bresson: Ci pensavo da molto tempo, ma senza lavorarci. Sarebbe a dire che ci lavoravo a tratti, ed è stato molto difficile. Mi stancavo abbastanza velocemente. È stato difficile anche dal punto di vista della composizione. Perché non volevo fare un film a sketch, ma volevo allo stesso tempo che l’asino incontrasse un certo numero di gruppi umani rappresentativi dei vizi dell’umanità. Bisognava dunque che questi gruppi umani si intrecciassero gli uni agli altri.
Bisognava anche, considerato che la vita di un asino è molto monotona, molto serena, trovare un movimento, un climax drammatico. Bisognava trovare un personaggio che fosse parallelo all’asino, e che avesse, lui, questo movimento; che donasse al film questo climax drammatico che gli era necessario. È a questo punto che ho pensato a una ragazza. Alla ragazza perduta. O piuttosto: alla ragazza che si perde.
Jean-Luc Godard: Considerando questo personaggio, pensa ad altri personaggi dei suoi film? Perché, guardando oggi Balthazar, si ha l’impressione che esso sia vissuto nei suoi film, che li abbia attraversati tutti. Voglio dire che con lui incrociamo anche il pickpocket, Chantal… ed è questo che fa in modo che Balthazar sembri il più completo di tutti. È il film totale. In se stesso e in rapporto a lei. Ha questa sensazione?
Robert Bresson: Non avevo questa sensazione facendo il film, ma ci pensavo da dieci o dodici anni. Non in modo continuo. C’erano dei periodi di calma, di non-pensiero, che potevano durare due o tre anni. L’ho preso, questo film, lasciato, ripreso… A momenti, lo trovavo troppo difficile, e credevo che non l’avrei mai realizzato.
Ha quindi ragione a pensare che io ci riflettessi da molto tempo. Ed è possibile che vi si ritrovi quello che è stato, o sarebbe stato, in altri film. Mi sembra anche che sia il film più libero che abbia mai fatto, quello in cui ho messo di più di me stesso.
È così difficile, di solito, mettere qualcosa di sé in un film che deve essere approvato da un produttore. Ma credo sia giusto, se non indispensabile, che i film che facciamo appartengano alla nostra esperienza. Vale a dire: che non siano una ‘messa in scena’.
La Question. Entretien avec Robert Bresson, a cura di Jean-Luc Godard e Michel Delahaye, “Cahiers du cinéma”, n. 178, maggio 1966
Via | Il Cinema Ritrovato – Kinopoisk.ru