Quel che il doppiaggio (non) dice: cronache da Il Grinta dei fratelli Coen – con sondaggio
Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.Era il 1982 quando
Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.
Era il 1982 quando Rutger Hauer si produceva in un monologo che, di lì a poco, sarebbe rimasto nella storia. Ma in quanti sanno che i raggi visti balenare da Roy Batty non erano del tipo B ma di quello C? Trattasi semplicemente di uno spunto – una curiosità, se vogliamo – per intraprendere un discorso ben più rilevante. Un modo come un altro, insomma, per trattare un tema dai risvolti epocali nell’ambito di questo settore: il doppiaggio.
Tutto parte da un’osservazione di un nostro lettore, Mario, che ci ha scritto:
Cari autori di cineblog,
sono un vostro assiduo lettore e vi scrivo perchè proprio stasera sono stato al cinema a vedere “Il Grinta”. Io non sono un critico del doppiaggio cinematografico, ma credo di avere identificato una leggerezza abbastanza seria. Dopo che Matt Damon viene trascinato e ferito alla lingua, la sua parlata rimane assolutamente invariata. Non ho visto il film in lingua originale, quindi vi chiedo di verificare se effettivamente Damon parli in maniera diversa dopo la ferita. Se così fosse mi chiedo come si fa e non redere durante il doppiaggio un particolare secondo me importante.
Ed ecco il sondaggio:
Ebbene, chi vi scrive ha avuto il piacere di vedere quest’ultima fatica dei fratelli Coen in lingua originale. Come me, tanti altri, probabilmente, avranno optato per la medesima scelta. Ciò significa che tanti altri, come il sottoscritto, potrebbero confermare al nostro caro lettore che in realtà il ranger texano Le Boeuf (Matt Damon) appare inequivocabilmente menomato anche nelle sequenze successive. O almeno, senza voler svelare nulla, questa sua menomazione si protrae fino a quando è “necessario”.
Dando per buono, quindi, che tale dettaglio sia sfuggito in fase di doppiaggio nel nostro amato idioma, ci troveremmo dinanzi ad un’incongruenza piuttosto evidente. Matt Damon è ferito alla lingua e, come tale, fa per forza di cose fatica a parlare. Tutte intuizioni banali (da scoperta dell’acqua calda, si direbbe). Tuttavia, a quanto pare, a qualcuno è sfuggito. E non ad uno spettatore poco attento, bensì a chi deve cercare di colmare quanto più possibile l’ineludibile gap linguistico con l’opera originale.
Quale che sia stata l’abilità dei doppiatori relativamente alla loro performance, c’è sicuramente dell’altro però. Chi non ha avuto modo di vedere Il Grinta in lingua originale si è certamente perso non solo un ottimo Matt Damon dalla parlata claudicante, ma anche un Jeff Bridges che sotto questo specifico aspetto ha fornito una prova a dir poco stupefacente.
Riaffiora così, prepotentemente, un dibattito che si protrae da decenni, se non addirittura dall’avvento del sonoro in quel lontano 1927: doppiaggio sì o doppiaggio no? E se sì… in che misura? Questo accesissimo dibattito ha dato vita essenzialmente a due schieramenti: uno, composto dai cosiddetti “puristi”, l’altro, rappresentato da un altro tipo di “puristi”, ossia quelli del “visivo”.
E badate bene, non è che sia così agevole operare una netta distinzione! Né si può facilmente attribuire la “ragione” ad una anziché all’altra fazione. Non tutti sanno che lo stesso Stanley Kubrick era un convinto sostenitore del doppiaggio, tanto da supervisionare egli stesso tale processo con un’attenzione all’apparenza inspiegabilmente maniacale – atteggiamento che, peraltro, assumeva riguardo ad ogni aspetto dei propri film. Per uno che considerava il cinema come “arte del visibile” (Bernardi), non era ammissibile che lo spettatore si perdesse in righe e righe di parole in sovrimpressione. Durante il film lo spettatore deve osservare attentamente ciò che avviene all’interno del quadro, senza perdersi in “inutili” letture.
Di contro, ci sono film che non possono certamente prescindere dalla resa recitativa dei loro attori, soprattutto in termini sonori. Il professor Gianni Canova, in una delle sue lezioni, raccontò un aneddoto risalente a parecchi anni fa. In quell’occasione ebbe modo di scrivere una recensione su di un determinato film (di cui, mea culpa, non ricordo il nome purtroppo), basandosi però sulla versione originale in lingua inglese. Quando il film approdò nelle sale, Canova cominciò a ricevere lettere di dissenso. Pacate, per carità, ma grondanti delusione poiché chi le scriveva, per la prima volta, si trovava in assoluto disaccordo con la sua analisi. Al che, l’oramai volto noto di Sky Cinema decise di concedersi una seconda visione, questa volta col doppiaggio in italiano: in quel momento gli fu tutto più chiaro.
Nella pellicola in questione, il/la protagonista, americano/a, si perde a Parigi. A quel punto il film tenta di descrivere lo “spaesamento”, quasi una sorta di alienazione del nostro personaggio, proprio mediante la messa in scena della sua impossibilità di comunicare. Lui/lei parla inglese in un contesto in cui praticamente tutti parlano il francese, e nessuno di questi sembra capirlo/a. Ebbene, questo aspetto, tutt’altro che di secondo piano, risultava perso in fase di doppiaggio. Come e perché non saprei spiegarvelo, ma è chiaro che non aver potuto incolpevolmente cogliere un elemento così fondamentale, rese praticamente vano l’intero film.
Ora, qui non si tratta di capire quale sia il film in questione. Molti di voi potrebbero citare casi analoghi, in cui la visione di un determinato film in una specifica lingua ha davvero fatto la differenza. E pensare che il Bel Paese vanta tra i migliori doppiatori al mondo, alcuni dei quali, ahinoi, defunti. E per rispetto nei loro confronti che non citiamo nessuno, proprio per paura di dimenticarci qualcuno appartenente alle varie generazioni. Ciò significa che noi italiani, più di chiunque altro, dovremmo avvertire meno lo shock di certe “operazioni”.
Insomma, come uscirne? Posta l’inutilità di sentenziare su chi abbia torto e chi ragione, ci piacerebbe sapere cosa vi spinge a guardare un film in lingua originale oppure, viceversa, doppiato. E, soprattutto, perché.
Prima di lasciarvi, però, ci sembra opportuno mostrarvi quel celeberrimo monologo relativo alle fasi conclusive di Blade Runner. E, manco a dirlo, ve lo proponiamo sia in lingua originale che doppiato in italiano dal grande Sandro Iovino. E visto che (come si dice dalle mie parti) “siamo nello spendere“, beccatevi altri due monologhi che hanno senza dubbio segnato la “carriera da cinefilo” del sottoscritto; anch’essi in entrambe le lingue (inglese e italiano). Parliamo di Al Pacino in L’avvocato del Diavolo (1997) e quello di Edward Norton in La 25ª ora (2002). Buona visione!
Blade Runner (ITA)
Blade Runner (ING)
L’avvocato del diavolo (ITA)
L’avvocato del diavolo (ING)
La 25ª ora (ITA)
La 25ª ora (ING)