Creed – Nato per combattere: recensione in anteprima
Creed è un po’ come tornare nel ’76, ma nel 2015. Soprattutto però il film di Ryan Coogler conferma Rocky quale solida mitologia cinematografica
[quote layout=”big”]Rocky: «Ci riuscirai perché sei un Creed. E poi ti voglio bene.»
Adonis: «Lo so, zio.»[/quote]
Cosa ci dice, al di là dei soliti discorsi, quest’epoca di sequel, prequel, reboot e remake? Ok, crisi d’idee, mancato coraggio e via discorrendo, tutte cose che sappiamo, argomenti triti e ritriti con un fondamento di verità ma comunque non esaustivi. No, siamo oramai al punto in cui il cinema si guarda allo specchio, scorge qualche ruga e sa di dover reincarnarsi come altre volte ha fatto nella sua storia. E chi, meglio di una delle figure più note in quest’ambito, può tentare di raccontare questo nuovo, ennesimo passaggio se non Rocky Balboa?
Come in Ghost in the Shell, il cinema cambia “guscio” ma dentro si sforza in tutti i modi di rimanere lo stesso. Forse è anche questo un altro dei motivi per cui da anni operazioni nostalgia e affini si susseguono senza posa, opportunismo a parte. Prendete questo Creed; ha tutte le carte in regola per rappresentare l’ennesimo espediente, buono a malapena per attirare i nostalgici, che, dopo aver cacciato la lira, hanno le dita pronte per scaricare sui vari social la propria frustrazione. D’altronde, come evidenzia Casetti, oggi cinema è anche questo, ossia coloro che lo commentano, in questo modo “estendendolo”.
Rocky però ha più di qualche ruga, e parrebbe essere messo addirittura peggio del medium su cui gira, tanto la saga quanto il personaggio. Allora serve un nuovo corpo, più giovane, avvenente, in forze, sì da permettergli di “sopravvivere”, come in certi racconti archetipici. Certo, qui il discorso è un po’ più complesso, perché Rocky è Rocky e nessun altro può davvero prendere il suo posto. Può però amplificarne la portata, consentendogli indirettamente di vivere ancora un altro po’? Sì, questo può farlo.In Creed Adonis è un ragazzo difficile, dal passato burrascoso; chiuso in riformatorio giovanissimo per la sua indole non proprio conciliante (non perde occasione per fare a botte), viene salvato da una signora, Mary Anne Creed, la moglie del celeberrimo Apollo. Sì perché Adonis è figlio del fu campione del mondo, avuto da una relazione con un’altra donna. Il giovane cresce, studia e si sistema, come vuole il contesto in cui è cresciuto, tutt’altro rispetto alla povertà di quando era ragazzino. Lui però la boxe ce l’ha nel sangue e quelle mani sono fatte per dare pugni, non per battere tasti, perciò bisogna fare un passo indietro e ricominciare da zero. O quasi. Perché se ti metti in testa che come allenatore e mentore tu debba avere Rocky Balboa, allora parti già in quarta.
C’è continuità tra Creed e l’intera saga di Rocky, da cui questo spin-off trae linfa vitale. Nei rimandi, nella struttura, in altre parole nell’assecondare un mito. Creed infatti fa proprio questo, ossia confermare Rocky quale mitologia cinematografica. Che ne avesse o meno bisogno, ad oggi, è una non-questione: il film di Ryan Coogler c’è e questo ci dice. Perciò inutile girarci intorno: se non si è esattamente degli appassionati, il fenomeno Rocky lo si deve in qualche modo aver almeno annusato. Che non significa solo “visto”, ma in qualche misura anche apprezzato, coccolato, al di là di un quinto e sesto episodio i quali, su tutti, appaiono più delle forzature che altro (malgrado chi scrive trovi comunque spunti, almeno nel quinto).
Due passaggi contribuiscono a questa idea di continuità, mettendo in luce questo legame forte tra il presente e il passato; sono i due piano sequenza di altrettanti, decisivi incontri che Adonis affronta. Prima di salire sul ring, la macchina da presa segue il giovane, accompagnandolo, quasi prendendolo per mano e mostrandolo al pubblico: un po’ come se Rocky stesso lo accompagnasse, indicandocelo e raccomandandosi di essere clemente, perché in quel ragazzo c’è dentro anche un po’ di quel vecchio pugile che prendeva a pugni animali macellati per allenarsi.
Eppure la struttura di Creed è molto semplice, basilare. Ma anzitutto rodata. Coogler riesce ad instillare il “nuovo” a piccole gocce, ma con una tale riverenza verso il “vecchio” che il tutto riesce ad essere piacevolmente familiare. Reiterando peraltro il tema che forse più di tutti sta al cuore di questa saga, ossia la lotta contro sé stessi. Anche qui, seguendo la massima ciceroniana («nihil inimicus quam sibi ipse», nessuno ci è nemico come lo siamo noi stessi), si lavora su questa lotta interiore che però in realtà si consuma all’esterno, come il cinema sa, può e deve fare.
Adonis è un violento, e questo lo sa lui così come coloro che gli stanno intorno; la violenza è il suo elemento, l’arma alla quale ricorre spontaneamente ad ogni contrarietà. Insomma è altro rispetto al Rocky Balboa delle origini, non fosse altro che porta con sé un fardello ulteriore, ovvero quel nome, di cui ha una paura tremenda. Creed in quell’universo lì significa uno dei più grandi pugili di tutti i tempi e la lotta a cui è chiamato il giovane è anch’essa vecchia come il mondo: superare il padre. Rocky è un po’ il Virgilio della situazione: può solo accompagnare colui che è chiamato a compiere quel viaggio, nient’altro. Eppure come si spiega che, specie nella seconda parte, Creed riesca in realtà a trasformarsi, quasi impercettibilmente, nell’ennesimo film sullo Stallone Italiano?
E che ci sia del mito in tutto ciò, ce lo dice proprio la parabola di Adonis Creed, simile ma diversa, analoga a quella di Rocky, con la partenza dal basso, l’opportunità insperata, l’occasione e tutto il pacchetto del primo film. E colpisce dover prendere atto che le scene più riuscite non abbiano alcunché di pirotecnico o elaborato; basta un primo piano ben piazzato di un Sylvester Stallone invecchiato, provato dagli anni, dagli errori e ancor di più dai successi. Perché Creed ci consegna anche uno Stallone in grande spolvero, che in realtà è sempre stato lì malgrado in pochi ci abbiano creduto. Il processo di cui in apertura non poteva d’altro canto prescindere dalla sua presenza.
Creed è un po’ come tornare nel ’76, ma nel 2015. Film con un cuore, che nel bene e nel male c’informa di questo travagliato periodo che il cinema sta attraversando. È infatti commovente come il mezzo stia tentando in tutti i modi di aggrapparsi ai rispettivi padri, per superarli, per celebrarli, per cancellarli. In questo il cinema si dimostra vivo, perché un processo così organico non appartiene a chi si accinge a defungere. Bisogna però aprirsi alla possibilità che ciò che segue sia altro, in continuità, certo, ma apparentemente altro da ciò che è stato finora. Guardate questo Creed: prende le distanze da Rocky perché non è Rocky, ma di Rocky non può fare a meno. Eppure ci urla che di Rocky ce n’è e ce ne sarà sempre uno soltanto, non importa quanti hanno percorso o percorreranno quella iconica scalinata.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”8″ layout=”left”]
Creed (Creed – Nato per combattere, USA, 2015) di Ryan Coogler. Con Michael B. Jordan, Sylvester Stallone, Tessa Thompson, Phylicia Rashad, Tony Bellew, Graham McTavish, Stephanie Damiano, Will Blagrove, Vincent Cucuzza, Juan-Pablo Veiza, Tony Devon e Philip Greene. Nelle nostre sale da giovedì 14 gennaio.