Checco Zalone ed il cinema italiano ritrovato?
Mentre Quo vado? si appresta a battere ogni record al botteghino, sarebbe il caso interrogarsi sul perché di un così travolgente successo. Al di là della logica del pro e contro, che tanto caratterizza il dibattito attorno a Checco Zalone
È opportuno chiederselo, inopportuno imporlo. Ci riferiamo alla domanda di cui al titolo. Se ne aveva sentore già nelle settimane che hanno preceduto l’uscita di Quo vado?, per poi assistere a questa Epifania anticipata, per cui i Magi il loro oro, incenso e mirra avrebbero dovuto portarlo a Checco Zalone. Né tantomeno sorprende la strumentalizzazione che si sta facendo di questo fenomeno, rilevante, certo, e non solo a livello cinematografico. Anzi, a questo livello significa meno che ad altri.
Pare infatti impraticabile anche la sola idea di integrare un proprio pensiero, per quanto piccolo e modesto, al dibattito: da un lato i detrattori, quelli per cui l’ignorante Zalone parla ai suoi simili, che in lui si rivedono e perciò il prendere parte alla celebrazione collettiva davanti a uno schermo diviene un po’ esaltazione di sé stessi o della categoria alla quale fieramente si appartiene; dall’altro gli accoliti, sia della prima che dell’ultim’ora, quelli che sui quotidiani «non comunisti» ci parlano di un Zalone di destra, che finalmente sbaraglia i maître à penser «de ‘sto c***o», veri o presunti intellettuali che hanno messo a tappeto la cultura nostrana.
Non si può certo negare che ciascuna delle due fazioni abbia le proprie ragioni (mi scuso per la rima involontaria): davanti a un fenomeno di immane portata, passeggero o meno, a ognuno tocca gettare acqua al proprio mulino, ergo non ci si meravigli di nulla. Certo, il processo di tardiva nobilitazione, quasi un’appropriazione implicita, da parte di taluni talk show nazionali, così come di certi quotidiani strutturalmente avulsi da personaggi come Zalone, così come da tutto ciò che rappresenta, forse è solo per cavalcare “giornalisticamente” la notizia del momento; forse denota qualcosa di più, in un’epoca in cui finanche il Papa si sforza di piacere a tutti.D’altra parte ad alcuni, per quanto non lo diano a vedere, ancora un po’ rode che gli si rinfacci il triste trattamento riservato a Totò da certi loro tristi maestri; e come il Principe, anche altri, come Ciccio Ingrassia e Franco Franchi, Bud Spencer e Terence Hill, amati molto rispettivamente in Francia e Germania – oltre che da noi, chiaramente. I primi due in particolar modo, ultime vere maschere di un cinema italiano che da allora ha fatto troppa fatica a crearne di nuove (Fantozzi è un discorso a parte, che meriterebbe un approfondimento a sé stante).
Vedete? Sono caduto anch’io nella trappola dei paralleli storici, altra dinamica che con veemenza sta venendo reiterata nel «dibbattito» di questi giorni. Ma in fondo viene voglia di dare ascolto a Zalone, per il quale effettivamente le cose sono davvero molto più semplici di come ce le figuriamo (o ce le figurano). A sentire quanto viene detto in questi giorni, il comico barese ha ragione su tutte le ruote, basti leggere le reazioni di ministri, opinionisti e semplici spettatori. Pro o contro Zalone, tertium non datur, in un impeto fondamentalista che ha del religioso becero. Lo si celebra quasi il suo successo fosse del cinema italiano tutto, mentre, per l’appunto, è suo soltanto; ecco perché, altrove, ci si inalbera al pensiero che nemmeno un decimo di quelli che hanno contribuito a questa schiacciante vittoria rimetteranno piede in una sala fino al prossimo Zalone. E allora?
Cos’è questa tendenza a politicizzare il fenomeno in questione? Perché, a fronte di numeri spropositati, un unicum relativamente alle nostre sale, ci si sente in dovere di richiamare teorie pseudo-economiche? Pare che Zalone vada a priori squalificato perché è e sarà l’unico a portare in sala così tante persone; perché, come direbbero certuni, la sua vicenda non darà vita a un trend. A costoro andrebbe ricordato che un’industria sana, cosa che il cinema italiano non è (né industria, né tantomeno sana), più cose, e di segno opposto, coesistono. C’è il film arty, che in pochi vedono, ma che all’estero invidiano, così come la produzione che attrae in sala il popolo (definito «popolino», un diminutivo che va al di là della mera grammatica).
È stupido dare addosso a quel cinema di cui, Zalone o meno, ogni Paese ha estremo bisogno, lo si chiami d’autore, d’essai, o come vi pare. Tanto quanto squalificare un evento cinematografico (perché di questo si tratta) solo perché «ci stanno andando tutti». Cos’è, critici, autori ed intellettuali, avete paura che qualche altro vi tolga l’osso di bocca? L’impressione è che Zalone dispiaccia proprio perché accessibile a chiunque, rendendo perciò vano il lavoro di improvvisati interpreti, così come di coloro che si dannano l’anima nel tentativo di non farsi capire, sia che si tratti di scrivere libri che di girare film. Ok, non per questo però va auspicato un contesto dove si vedono solo film del genere. Non per questo dobbiamo volere solo e soltanto commedie che, a ragion veduta, se ne sbattono di certi tabù e paletti culturali. Abbiamo bisogno anche di loro; in certi momenti “soprattutto” di loro. Mai soltanto.
Per la sofisticazione ritengo valga lo stesso principio dei farmaci: conta il dosaggio ai fini degli effetti in relazione a un dato problema. Se Zalone riesce a limitarne all’inverosimile il ricorso, bene, l’importante è che assolva ai suoi obiettivi. E ci riesce. In lui questo processo viene sublimato dall’esasperazione… ché sennò chi lo vedrebbe? Senza paternali, senza somministrare lezioni, ideologiche o di partito, il nostro ci sbatte in faccia ciò che in larga parte è il nostro popolo. Anzitutto diviso, perché a ben vedere per Zalone l’italiano è un’astrazione: c’è il meridionale ed il settentrionale. Il suo però non è un tentativo di recupero, non mira ad una goffa quanto inutile rieducazione; si sofferma su alcune peculiarità, le più significative, e ci ricama su cavando fuori l’inverosimile. Si chiama satira, ed è bello che oggetto ne sia anche la gente comune, non solo la politica.
Si chiedano i detrattori come mai le persone rispondano in maniera così importante. Tra Zalone ed il suo pubblico si è infatti instaurato da tempo un patto tacito, per cui quest’ultimo accetta di essere canzonato, ridicolizzato e quant’altro, a patto però che non gli si faccia la morale. Ma Zalone fa di più, perché, così come non rimprovera a certi tipi italiani i loro vizi, nemmeno li conforta. Non indica loro la strada maestra, né però incoraggia talune peculiarità che, al contrario, stigmatizza. E se riesce a mantenere questo pericoloso equilibrio è perché il cantante pugliese sa come prendere coloro ai quali si rivolge, che sono maggioranza. Tenendo al tempo stesso conto dei più smaliziati, quelli che non gli perdonerebbero certe cadute di stile da tronfio paraculo.
Quo vado? e tutti gli altri film di Zalone restano perciò quintessenzialmente legati al territorio, poiché solo entro i nostri confini se ne può cogliere la comicità, la verve satirica che non sfocia mai nell’offesa. Senza disdegnare il turpiloquio, altra tendenza catara di chi celebra, consapevolmente o meno, certa comicità scevra da brutte parole e doppi sensi: no, dice Zalone, perché i miei sono rimandi autentici, e la gente si sentirebbe presa per i fondelli qualora dicessi mannaggia in luogo di cazzo. Ciò che però davvero conta, lo ripetiamo, sono sempre le premesse rispetto agli obiettivi, procedimento in relazione al quale Zalone è davvero un maestro.
Emerge infatti un filo logico tra i due momenti, qualcosa di raro nel nostro cinema. Lui riesce a instaurare questo legame, un metodo che, con i dovuti distinguo, andrebbe applicato anche ad opere totalmente diverse dalle sue. Ma tutto ciò avviene? Domanda retorica. Si celebri perciò il “Zalone del metodo”, quello che ha trovato una formula la quale potrebbe garantirgli lunga vita sullo schermo. Potrebbe, perché Checco durerà in sala finché avrà qualcosa da dire, com’è stato sino ad ora. E finché, soprattutto, saprà come dirla. Se qualcuno sa essere altrettanto efficace dando bastonate anziché usare un tocco così leggero, si faccia pure avanti; certamente troverà spazio e gli sarà tributato il giusto.