The Day of Destruction, recensione, Toshiaki Toyoda torna alla rabbia lucida d’inizio carriera
In The Day of Destruction si scorge la naturale evoluzione del Toshiaki Toyoda di Pornostar, Blue Spring e 9 Souls, puntuale, diretto e sopra le righe
Questo è il tempo della rabbia,
se non ora, quando?
Una nuova violenza s’insinua incontrastata,
Inferno o Paradiso?
Inutile dirlo, siamo all’Inferno.
Se pensi di essere vivo, dimostralo,
Non importa come, dimostralo ora
Dammi la tua rabbia,
la rispetterò.
Non rigettare il dolore,
Dimostra che esisti,
dimostralo ora.
Per un motivo o per un altro, Toshiaki Toyoda era uscito un po’ dai radar. Una sorta di enfant terrible del cinema giapponese a cavallo tra fine anni ’90 e primi 2000, il cinema di Toyoda-san si distinse a suo tempo per la sua visceralità, quel suo essere sopra le righe, quasi punk forse, seppur in modo ben diverso rispetto, per dirne uno, a Tsukamoto. Nel 2018 è uscito The Miracle of Crybaby Shottan, qualcosa di leggermente diverso rispetto ai soliti tratti irosi che ne hanno segnato i primi lavori; poi, di colpo, veniamo a sapere di The Day of Destruction, film uscito quest’estate, con il quale si volevano praticamente inaugurare le Olimpiadi rinviate all’anno prossimo.
Ed è un ritorno alle origini, duro, arrabbiato, il tutto condensato in meno di un’ora. Immaginate la sorpresa non solo nel sapere che Toyoda avesse pronto un nuovo film, per cui peraltro ha dovuto rivolgersi al crowdfunding ai fini del suo completamento, ma che a ‘sto giro il tenore fosse davvero altra cosa rispetto alle sue uscite più recenti. The Day of Destruction è qualcosa a sé stante, profondamente sentito, che parte con uno stiloso bianco e nero teso ad introdurci nel mistero della vicenda che sta al cuore del film.
Un mostro apparso in una miniera ha scatenato una strana epidemia, stravolgendo le vite dell’intero Paese. A Toyoda tuttavia non interessa mostrare alcuno sfacelo, impuntandosi su cliché post-apocalittici e/o distopici; il suo è un ritratto ermetico il giusto, perché appunto fa leva sul mistero, dunque restio a chiarire ogni singolo aspetto. Abbiamo Kenishi, il quale, dopo aver perso l’amata sorella Natsuko, impazzisce, o così sembra, e allora decide di stabilire un contatto con quelle forze soprannaturali che stanno regolando le dinamiche di questo male che infetta i suoi connazionali.
Non credo ad ogni modo che si possa rendere un buon servizio a The Day of Destruction, dunque al suo regista, stando lì a riportare i passaggi salienti della trama. Toyoda non vuole blandire nessuno, men che meno convincere, il che è in fondo la cifra di questo suo grido, simile a quello in cui Kenishi si dà a ripetizione in mezzo alla folla che attraversa delle iconiche strisce pedonali: Kenishi è in fondo il regista, da lui passa l’inquietudine di un uomo che non sa più come farsi ascoltare, lui che ritiene di aver finalmente capito, di aver visto qualcosa che alle persone ordinarie continua a sfuggire. Con lui, a dare vita a tale scenario, ci sono i compagni di viaggio di una vita, ossia Kiyohiko Shibukawa e Ryûhei Matsuda, più altri due attori con cui si va sul sicuro come Issei Ogata e Yôsuke Kubozuka.
Tutte le comparse indossano le mascherine, componente utilizzata in maniera intelligente, elemento livellatore che consente appunto a Toyoda di instaurare un netto discrimine: «se non ora, quando?», recita il testo del brano che, dopo circa dieci minuti, esplode come un urlo di dolore, non sembra dovuto al risentimento. Insomma, c’è chi sa perché ha visto, e poi ci sono tutti gli altri. The Day of Destruction è una chiamata alle armi, scomposta perché rabbiosa ma non per questo disperata. No, non sembra aver perso la speranza Toyoda-san, proprio per questo non è ottimista. A più riprese si fa cenno alla funzione che assolve questa epidemia, motivazioni che chiarisco più avanti ma che sarebbe scorretto calare nella più stringente attualità: il mostro, infatti, con ogni probabilità non è un letteralmente un virus, bensì un’idea che ha dato vita a un sistema. In altre parole il Capitalismo.
Se però ci si fermasse lì, dubito che The Day of Destruction attecchirebbe come invece tende a fare. In una fase di profonda incertezza e confusione come quella che stavamo già vivendo prima della pandemia, e che già riguardava tutto il cosiddetto mondo civilizzato, suppongo non sia azzardoso dare un nome più specifico a questo male che ha infettato buona parte della popolazione. Si tratta dell’avidità. Se lo sviluppo degli eventi non avesse un respiro più ampio, una simile interpretazione potrebbe forse apparire un po’ forzata, ma quel continuo richiamo appunto alla funzione di questo virus, che è quella di lavare la società dai troppi suoi peccati, è una chiara indicazione in tal senso. Non tutti infatti possono cogliere, solo chi ha una visione verticale della vicenda; non a caso certi rimandi vengono affidati a coloro che per definizione sono in contatto con quell’altra dimensione, ossia i sacerdoti, che ripetono a mo’ di giaculatoria quella che è in fondo una preghiera: è tempo di ripulire tanto male ma l’uomo da solo non può, dunque questo processo deve almeno in parte subirlo.
Mi rendo conto che si tratta di una visione troppo cupa, per alcuni anacronistica rispetto a come operino certe dinamiche, ma gran parte del fascino di The Day of Destruction sta proprio nel suo essere ancorato a tale modo di accostarsi all’esistenza, qualcosa di diametralmente opposto rispetto a un altro eccesso, ossia quello occidentale, che al contrario nega risolutamente un intervento esterno per mettere tutto in mano all’uomo. L’idea di Toyoda nondimeno mi sembra più centrata, facendo di lui quasi una sorta di strillone medievale: siamo alla fine della corsa, i segni sono inequivocabili, dunque tocca trarne le dovute conseguenze.
Le divinità dell’altro mondo, quali che siano le loro intenzioni, si sono manifestate senza infingimenti, chiamando (per l’ultima volta?) ciascuno di noi al cambiamento; il dolore radicale, che proietta l’argomentare di Toyoda su un livello più alto, sta nel dover ammettere di non sapere se sta parlando a una piazza che lo ascolta o se invece le sue sono oramai grida nel deserto. Ecco perché la domanda che strugge, e che sta alla base di The Day of Destruction, è una sola… siamo ancora in grado di sentire?