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Pedro Almodóvar, stiamo vivendo una finzione di fantascienza

Il regista spagnolo racconta la sua reclusione forzata con un articolo, attraverso impressioni e ricordi

pubblicato 7 Aprile 2020 aggiornato 29 Luglio 2020 11:58

È senz’altro vero che questo periodo colpisce tutti, anche chi non viene toccato dal virus. Là dove non arrivano le restrizioni, ci pensa la cronaca, in larga parte tremenda, sia per contenuti che per modalità; e dove non arrivano queste due componenti, beh, conta l’indole del singolo, come si sta personalmente relazionando a questa fase di sospensione surreale.

Di recente Pedro Almodóvar ha scritto un pezzo per El Diario: lungo, meditato, in cui il regista spagnolo ha provato a dare ordine ad ansie e paure che lo stanno attraversando in questi giorni. Celinianamente ha descritto questa fase come un viaggio verso la notte, qualcosa che lo atterrisce e lo edifica al contempo, malgrado le resistenze dei primi giorni.

Non guardo più l’orologio o solo per scoprire quanti passi ho fatto attraverso il lungo corridoio di casa mia. Lo stesso corridoio in cui Julieta Serrano rimproverava Antonio Banderas [alter ego di Pedro Almodóvar nel film Dolor y Gloria , girato in una riproduzione dell’appartamento del regista, ndr] per non essere stato un bravo figlio. L’oscurità all’esterno indica per me l’arrivo della notte, ma il giorno come la notte è diventato momenti senza ore. Ho smesso di affrettarmi. Negli ultimi giorni ho notato che questo lunedì 23 marzo è più lungo, quindi approfitto della luce persistente.

La butta sulla politica poi, evocando quell’epoca, a suo dire grama da un punto di vista morale ma così gravida di ottimi film; sono gli anni ’50, quelli della Fantascienza, dei b-movie a tema, che col pretesto dei marziani si scagliava coi comunisti. Eppure, appunto, emersero film notevoli, come quelli tratti dai racconti di Richard Mateson (Radiazioni BX: distruzione uomo, L’ultimo uomo della Terra), o il celeberrimo L’invasione degli ultracorpi, di Don Siegel. E poi c’è il particolare rapporto che ha instaurato con Agente 007 – Missione Goldfinger, al quale è peraltro legato da uno speciale ricordo.

Di fronte a Goldfinger sono felice della mia scelta, anche se è il film che mi si è imposto anziché il contrario. Ho incontrato Sean Connery a una cena a Cannes, dove eravamo seduti fianco a fianco, e non solo mi ha stupito la sua cultura cinematografica, ma non avrei mai pensato che sarebbe stato interessato al mio lavoro. Non viveva più a Marbella ma amava ancora tanto la Spagna. Abbiamo stretto amicizia, scambiato i numeri di telefono, che ero sicuro che nessuno di noi avrebbe mai usato. Eppure mi ha chiamato qualche mese dopo, nel 2001 o nel 2002, al termine di una proiezione di Parla con lei. Non sono in alcun modo feticista o mitomane, ma rimasi sopraffatto dall’ascoltarlo mentre parlava del mio film. Sentire la sua voce, la voce profonda di un bravo attore e di un bell’uomo. Quella notte, di fronte a Goldfinger, ho pensato a tutto questo. La quarantena, la notte, Sean Connery ed io.

Belle parole spese pure per Lucía Bosè, per quel gesto oltremodo apprezzato del figlio, Miguel, che ogni anno, per il compleanno di Almodóvar, fa recapitare al suo appartamento di Madrid un mazzo d’orchidee. Così come nostalgico è il suo ricordo di Chavela Vargas. E per concludere c’è pure il retroscena, non so se già noto, in merito a quanto accaduto al Festival di Cannes 1992, riguardo a un film che Almodovar ha particolarmente amato, ossia Il sole della mela cotogna di Víctor Erice.

Nel 1992, il film è stato presentato al Festival di Cannes, dove facevo parte della giuria. Ha giustamente ricevuto il Premio della giuria, ma ho quasi dovuto arrabbiarmi con il presidente, Gérard Depardieu, a cui non era piaciuto il film che ha definito un documentario. Fortunatamente, gli altri giurati mi avevano sostenuto.

Sul sito di Télérama trovate l’articolo per intero (in francese).