Torino 2020, The Evening Hour, recensione del film di Braden King
Negli Stati Uniti depressi un giovane tenta un improbabile riscatto. The Evening Hour trova la sua ragion d’essere nei suoi personaggi
C’è una constatazione che, più di ogni altra, s’impone dopo essere arrivati in fondo alla vicenda del protagonista di The Evening Hour, Cole: a parte uno o due, probabilmente non esistono personaggi con i quali non sia almeno un po’ possibile relazionarsi. Lo scenario è quello di un’area profondamente segnata dalla crisi, West Virginia, un’altra America insomma, quella abbandonata a sé stessa, che campa di espedienti; lì è come se il grandeur della superpotenza economica non sia mai arrivato, oppure, se ci è passato, ha lasciato dietro di sé solo macerie.
Qui Cole tenta di risollevarsi, silenziosamente, senza rivendicare alcunché: fa l’infermiere presso una struttura che ospita persone anziane, ma al contempo spaccia antidolorifici. Vive con i piedi per terra, consapevole del fatto che, fin quando certe dinamiche che regolano la quotidianità della cittadina in cui abita non cambiano, nemmeno il suo personale riscatto sarà possibile.
La parabola di The Evening Hour alterna il macro del contesto entro cui opera il suo protagonista, dunque, alla questione irrisolta di quest’ultimo, facente capo in larga parte all’assenza di un padre che non ha mai conosciuto, nonché di una madre che l’ha abbandonato quando ancora era piccolo. Su questo doppio binario si dipana non solo la trama bensì la sua portata, il suo tratteggiare profili di un contesto che appare vivo, restando in superficie quanto basta per non mortificare quanto di vero ci sia in loro.
Emerge una violenza che è per lo più inespressa anche se non del tutto repressa, aspetto che King traspone in maniera efficace mediante un ritmo cadenzato, senza picchi, il che è un po’ croce e delizia di una parabola che un vero e proprio culmine difatti non lo contempla. La rivelazione arriva semmai a cose fatte, quando l’arco di Cole è concluso, sebbene non in tutto e per tutto come lui vorrebbe; ma è lì che, forse senza che ce ne si renda conto per tutto il film, il percorso del protagonista deve approdare, il cerchio che, non per niente, finisce col chiudere lui stesso. Una chiusa forte, spiazzante, costruita con alcuni flashback disposti qua e là, ed inaspettata nella misura in cui il tono generale che permea lo sviluppo della trama non lascia supporre una virata del genere, esposta, va detto, con apprezzabile delicatezza.
Tocca tuttavia tornare a coloro che orbitano attorno a Cole, alle sue donne, con cui coltiva un legame particolare, quella tensione che aleggia rendendo il tutto più interessante. Ma anche a Reese, per dirne uno, l’amico che va spesso a trovare a casa, anch’egli preso dai suoi tentativi di venire fuori, di liberarsi di qualcosa; così come Terry, lo spauracchio che riemerge dal passato, personaggio forse negativo ma non per questo spregevole, anzi, molto umano. Tipico di quadri del genere è l’essere tutti vittime di un contesto, per cui quasi scusati per ciò che finanche di pessimo sono capaci.
Su questo fronte The Evening Hour non dice granché di diverso, insomma, non fa luce in modo particolare su situazioni che il cinema indie americano tratta sovente, con un piglio peraltro più penetrante. Nondimeno, pur adottando un registro “ordinario”, se vogliamo, Braden King riesce almeno a farci prendere a cuore queste anime in pena di cui non sempre è possibile capire cosa vogliono. Si sa cosa soffrono, questo sì, ed anche se a ragion veduta non se ne colgono le ragioni specifiche, il triste ma al contempo caloroso processo che ci viene messo davanti finisce per forza col toccarci.