Torino 2020, Funny Face, recensione del film di Tim Sutton
Meravigliosa origin story legata alla tradizione, prendendo al contempo le distanze dai codici del comic movie. Funny Face è la consacrazione di Tim Sutton
Perché indossi quella maschera?
Non lo so, forse vorrei essere un supereroe. Forse. Non lo so.
Una giovane mussulmana, Zama, scappa di casa. Girovagando per le strade di una New York fagocitante, incontra Saul; quest’ultimo sta attraversando un periodo molto delicato, situazione esasperata dall’imminente sfratto dei suoi nonni, dovuto alla volontà di un grosso imprenditore di costruirci sopra un parcheggio. È nell’indossare una maschera, quasi come riflesso condizionato, che Saul trova la forza per mettere in atto la sua vendetta.
Funny Face è opera quintessenzialmente newyorkese, quantunque al centro non vi sia la solita Manhattan bensì la più periferica ma non meno affascinante Brooklyn; l’alienazione tuttavia non cambia, e Tim Sutton punta molto su tale tesi, ossia che, in un contesto in così rapido e non di rado immotivato cambiamento, non vi sia proprio spazio per l’adattamento. Saul e Zama vagano come anime in pena per il quartiere senza che nemmeno sappiano cosa li leghi, eppure qualcosa c’è. Quel quid sta proprio nel senso di smarrimento, finanche di frustrazione rispetto a uno status quo che li taglia fuori, irretendoli a ogni piè sospinto. Il loro inconsapevole rifiuto di alcun punto di riferimento rappresenta in fin dei conti la risposta alla crisi costante alla quale sono sottoposti.
Quella di Sutton è un’atmosferica origin story che celebra lo scenario entro il quale si consuma, riecheggiando tutta una serie di suggestioni, che appartengono ad un immaginario familiare ma non per questo avaro di spunti “nuovi”, proprio in funzione della capacità che certi scorci hanno di rigenerarsi, trasmettere sempre impressioni diverse, prestarsi ai racconti più disparati senza lasciarsi piegare, al contrario, informando le storie che si svolgono al proprio interno. Questo per dire quanto tale location, saputa peraltro usare come fanno il regista e il suo direttore della fotografia, Lucas Gath, si presti a narrazioni di carattere universale – non per nulla è stata per decenni il centro del mondo.
L’andatura ondivaga di tante inquadrature, placida ma implacabile, rispecchia poi un ritmo altrettanto conciliante, dietro la cui apparente calma si cela una violenza che è lì lì per esplodere da un momento all’altro. Ma se è vero che Funny Face è senz’altro un film di (super)eroi, non è meno vero che le origini su cui si soffermano non sono necessariamente quelle che sembrano; o quantomeno, non riguardano per forza di cose i due protagonisti. Il discorso è ben più sottile, come se le peripezie di Saul e Zama non fossero altro che il sogno, o per meglio dire l’incubo, del personaggio che è realmente chiamato a redimere questa città dal baratro nel quale da tempo è sprofondata.
Se in Dark Night Sutton sceglie un sentiero tangenziale, dunque, restando sull’analisi quasi documentaria dell’impatto culturale del fenomeno, in Funny Face il regista americano ha modo di spaziare ben più liberamente, concedendosi persino qualche licenza, al fine di esplorare ancora più in profondità l’anelito inespresso dietro al fascino per la figura del vigilante in questa nostra epoca caotica e sconnessa. E lo fa centrando il punto, scommettendo sulla verosmiglianza della sua storia, che a sua volta potrebbe benissimo fungere da documento, al di là di certi passaggi leggermente più surreali.
È come se Sutton tentasse di conferire un ordine a svariate istanze, tutte dettate dall’amarezza e dalla delusione a fronte di un processo da tempo insostenibile, dando la giusta dimensione rispetto a chi può o deve fare cosa. E non si tratta di stabilire se, nel proporre un racconto del genere, abbia torto o ragione, bensì a sforzarsi di comprendere quanto sia sincero, onesto persino, l’approccio, di conseguenza la procedura. Smarrita l’innocenza de La rabbia giovane, inevitabilmente evocato assieme a svariati altri caposaldi americani (Taxi Driver non smetterà mai di ossessionare chi vuole parlare di certe cose ed ambientarle a New York, come confermato di recente dai Safdie di Good Time), non resta che passare allo stadio successivo, ossia capire cosa c’è dopo, oltre il disincanto, oltre la violenza, oltre le reazioni di pancia dettate dall’età, quindi dall’inesperienza.
Saul e Zama incarnano a pieno due profili figli del proprio tempo, e lo fanno in massimo grado. Entrambi mossi radicalmente dal profondo desiderio di credere in qualcosa, lei probabilmente in un Dio che eppure riconosce a stento, lui nei Knicks, la cui triste parabola diviene catalizzatore della sua amarezza, del suo scontento; non a caso il commento di alcune partite fanno capolino spesso nel corso del film, ed è sempre la medesima cronaca, quella di un progetto fallito, senza aspirazioni. Saul ha deciso di sovrappore questa disperata caduta della sua squadra del cuore ad un altro tracollo, quella di una città intera, che percepisce a tal punto diversa da vederla snaturata. Non la purezza, per così dire, ma le intenzioni iniziali, questo interessa preservare al ragazzo, che in fondo non ha altro obiettivo, mentre porta e si lascia portare in giro da una famelica ragazza legata a sua volta a qualcosa che la tiene ancorata alle proprie radici, in quest’ultimo caso il burka.
Due outcast, due sconfitti per definizione, finiscono perciò con l’essere gli eroi dei nostri giorni, gli unici possibili. Il punto sta nel capire quale sia il loro compito, se davvero la loro missione si risolva nella vendetta o in qualcosa di più alto, a priori apparentemente inarrivabile, precluso a due personaggi del genere. L’esito è oltremodo corroborante, con quell’inquadratura finale su un parcheggio a dire tante cose, in primis forse a segnalare un fine corsa che, dopo tanto penare, genera uno strano ma confortante sollievo. Diciamolo chiaramente: quella di Tim Sutton è ufficialmente diventata una voce significativa.