Raya e l’ultimo drago, recensione, la minuscola Kumandra non fa breccia
Tirato via il classico Disney numero cinquantanove, Raya e l’ultimo drago difetta in identità e direzione, blando nel messaggio e nell’esposizione
Il mondo di Raya e l’ultimo drago un tempo era Kumandra. Che significa? In buona sostanza, la terraferma era un tutt’uno indiviso; poi, «people being people» (le persone essendo tali insomma), come dice la voce narrante, prese piede la discordia e l’umanità si divise in cinque tribù. Raya, la giovane protagonista, è figlia del leader di Cuore, il clan che custodisce un oggetto sacro, che di fatto regge il seppur precario equilibrio del pianeta, tenendo lontano i Drunn, mostri simili ai Phantom di Final Fantasy (2001); consistenza diversa, anziché risucchiarti l’anima, quando t’attraversano diventi una statua. A nessuno però sta bene che un reperto così potente sia in mano a Cuore, perciò, nel tentativo d’impadronirsene, la sfera si rompe ed il mondo cade in una sorta di declino post-nucleare.
Al centro di Raya e l’ultimo drago c’è un messaggio d’unità che, diversamente da altre occasioni, è urlato, troppo diretto per fare breccia come dovrebbe. Scritto in maniera tale da non concedere tempo a sufficienza per esplorare questo leitmotiv, che fa leva sulla diffidenza reciproca quale radice di ogni male, come spesso avviene con svariati film Disney, l’incedere incalzante, azioneazioneazione, risulta ubriacante pure per sensibilità come le nostre, abituate oramai ad un rilascio così esasperato d’informazioni. A prendere il sopravvento è il diktat dell’attenzione, che in nessun caso va persa; il che è comprensibile alla luce dello stato in cui ci troviamo, senonché a ‘sto giro pare non ci si sia fatti carico del corrispettivo che si andava a perdere, sia in termini di narrazione che di efficacia rispetto al tema centrale.
Che la didascalia prenda il sopravvento è lecito supporlo e, fino a un certo punto, sarebbe persino tollerabile. I nodi emergono allorché ci si rende conto che il tirare via quasi ogni scena con una simile fretta comporta un digiuno che alla lunga fa passare l’appetito. C’è un passaggio, quello in cui Sisu, il dragone, si produce in una performance aerea, librandosi in aria, su fino al cielo, e tutti ad osservare, esterrefatti, da una barchetta; è il classico momento Disney in cui, al di là dello spettacolo visivo, si dovrebbe avvertire qualcosa, un sussulto, perché di solito scene così coreografiche poggiano sull’accumulo emotivo costruito sino a quel punto. Non stavolta. Le immagini chiamano a gran voce un simile impatto, cercando di strapparlo in tutti i modi; ma nulla.
È solo un esempio, meno scontato rispetto al finale, che, specie da Inside Out in avanti (ma già da prima), non rappresenta mai il vero apice, limitandosi ad accompagnare gli eventi raccontati verso il loro epilogo; a quel punto però l’impennata c’è stata già, e la chiusa serve più a complemento, pure perché per certi versi telefonata, ed allora è importante che non stoni, accordandosi in armonia con quanto costruito lungo l’intero percorso. Un percorso, quello di Raya e l’ultimo drago, praticamente suddiviso in capitoli, blando per dire il meno, tutt’altro che ispirato, secondo uno schema che si svela immediatamente, sebbene lì per lì non si voglia credere alla possibilità che il tutto possa davvero risolversi nel far visita a ciascuna delle quattro aree per recuperare i frammenti, una struttura che persino in ambito videoludico è stata accantonata.
E mentre Raya si fa amici in ognuna di queste zone, di fretta e furia, si fatica finanche a rapportarsi con le singole scene, quasi sempre rocambolesche, ma che stanno in piedi da sole, anzi, sono concepite come blocchi a sé stanti, che non legano. La semplicità sta altrove, non consiste di certo nell’evitare d’infondere un’anima perché sennò ci si distrae. L’unica cosa che il film riesce a restituire della sua ambientazione è in fondo la sua piccolezza, il non crederlo per un istante un mondo vero e proprio, come in fin dei conti ci viene presentato, quanto semmai un quartiere. Dimensione dalla quale non riescono nemmeno ad emanciparsi i personaggi, piccini già in premessa, succubi di un messaggio inutilmente conciliante, che li appiattisce in maniera di gran lunga più netta rispetto alle seppur notevoli animazioni; a certe condizioni, d’altronde, non è certo la tecnica a poter compensare.