The Courier, recensione del film con Benedict Cumberbatch
C’è un cuore dietro la spy-story patinata e codificata narrata in The Courier, in cui a farla da padrone sono i due protagonisti, Cumberbatch e Ninidze
Greville Wynne (Benedict Cumberbatch) è un uomo d’affari, un facilitatore, uno di quelli che sta alla base della piramide, un soldato di un Occidente, che, finita la Seconda Guerra Mondiale, è stato arruolato nelle file di quel Capitalismo che, piaccia o meno, ha portato un benessere diffuso, malgrado certe evidenti idiosincrasie. Perché evocare un sistema intero? Beh, perché per un personaggio del genere vedersi catapultato in un altro mondo, regolato da una cultura opposta, come quella imperante in Unione Sovietica, rappresenta un salto non da poco. Su tale premessa si apre The Courier.
Il rappresentante viene infatti avvicinato a CIA e MI6 per una missione molto delicata, ossia avvicinare una spia russa, Oleg Penkovsky (Merab Ninidze), uno che dei movimenti del Partito sa parecchio, e farsi da tramite, da corriere per l’appunto, al fine di trasportare materiale sensibile da Mosca a Londra. È una storia vera, realmente accaduta; un fatto di cronaca che, a quanto pare, ha giocato un ruolo tutt’altro che secondario rispetto alla risoluzione della crisi dei missili a Cuba.
The Courier consta, verrebbe da dire, praticamente di due film. Il primo è quello che lo stesso materiale promozionale, trailer in primis, ci restituisce: spy-story dai toni brillanti, quasi a mo’ di commedia a tratti, che a dire il vero a un certo punto soffre un simile trattamento, proprio perché alla lunga non si riesce a capire dove un approccio del genere possa condurre. Greville fa avanti e indietro dalla Russia, litiga con la moglie (Jessie Buckley), la quale capisce che c’è qualcosa di strano ma non può mai immaginare di cosa si tratti davvero, fa i suoi per forza di cose striminziti report ai due rappresentati dei servizi segreti, britannico e americano; a parte questo, tuttavia, il rischio di accartocciarsi c’è. Ecco allora lo switch.
Il secondo film è quindi ciò che accade dopo, quando JFK annuncia al mondo di avere le prove inerenti alla base sovietica a Cuba, con le celebri foto scattate dal Lockheed U-2, davanti alle quali lo stesso Partito, che fin lì aveva negato, dovette arrendersi. Di quel periodo alla Storia vengono consegnate le trattative, la paura per essersi trovati sull’orlo di una guerra nucleare… poco o nulla si conosce invece di questi due personaggi che agirono nelle fasi precedenti, raccogliendo migliaia di documenti, grazie ai quali gli USA hanno potuto contare su un vantaggio notevole e scongiurare il peggio.
Su un primo piano della lente tramite la quale furono scattate le foto delle basi operative a pochi chilometri dalla Florida si apre questa seconda parte, di gran lunga più cupa, à la Fuga di mezzanotte (1978), giusto per saperla collocare, di segno opposto anche su altri fronti: laddove nella prima tutto procede senza intoppi, il meccanismo è impeccabile, un’ultima operazione si rivela fatale, ribaltando ogni cosa. L’aspetto quasi glamour trova qui il suo violento contraltare, catapultando la vicenda in un’altra dimensione, in cui si lavora per opposti: nella prima il mondo è sull’orlo di una crisi mentre i due protagonisti sembrano al riparo; nella seconda è il contrario, proprio quando il problema a livello generale pare essere rientrato, ebbene, questo passaggio segna l’inizio della parabola discendente dei due personaggi principali.
Quanto appena rilevato serve ad introdurre l’ultimo appunto di questa nostra disamina, per certi versi decisivo. Sarebbe infatti fuorviante leggere The Courier come un resoconto, per quanto romanzato, di una pagina di Storia: quello è tutt’al più lo sfondo. C’è non a caso un filo, nemmeno troppo sottile, che lega queste due anime del film, costituito dall’amicizia tra Greville e Oleg. Peccato che sul finire non si resista proprio a rimarcare questa cosa, un’aggiunta pedante che, come al solito, denota la mancanza di fiducia verso il pubblico, al quale in larga parte non è certo sfuggita questa chiave di lettura. Fin lì difatti la scrittura funziona, emerge come il catalizzatore degli eventi sia questo rapporto venutosi ad instaurare tra i due, elemento pregnante ma esposto il giusto, anche quando, al cambio di paradigma interno nella trama, viene fatta esplicita menzione (solo che in quel momento il tutto è molto organico, per nulla forzato).
Ad ogni modo, limitatamente a tale aspetto The Courier recupera pressoché in toto il registro smagliante con cui certe mega-produzioni hanno saputo in passato toccare certi temi per poi arrivare contestualmente al pubblico. Discorsi semplici, azione incalzante il giusto, tratteggiando una vicenda resa accessibile proprio dal dato più semplice, in questo caso la maturazione di un’amicizia sincera, profonda a dispetto di un contesto borderline, questo sì lontano dalla portata di noi che guardiamo. Più che una lezione di Storia, dunque, un efficace ancorché abbozzato approfondimento su alcune qualità umane che, non importa quanto le circostanze siano critiche, fanno la differenza. Piace quando certi prodotti patinati riescono a trasmettere qualcosa a dispetto dei tanti strati aggiunti, non di rado talmente spessi da non permettere di cogliere ciò che sta al cuore. Qui si vede, o se non altro si percepisce, il che accade sempre meno di frequente.
The Courier (Regno Unito, 2021) di Dominic Cooke. Con Benedict Cumberbatch, Merab Ninidze, Mariya Mironova, Rachel Brosnahan, Anton Lesser, Angus Wright, Miles Richardson, Jessie Buckley, Kirill Pirogov, Eysteinn Sigurðarson, Laurel Lefkow, Ales Bílík, Andrey Kurganov e Ondrej Malý.