L’infinita Fabbrica del Duomo: recensione del film in Concorso al Filmmaker 2015
Il monumento simbolo della Milano che attraversa i secoli. L’infinita Fabbrica del Duomo è un lavoro che punta all’essenziale, dando fiducia alla storia che si fa racconto, oltre le immagini
Raccontare secoli di storia in poco più di un’ora. Sembra assurdo, ma gratta gratta è esattamente questa l’ambizione che rimane rispetto alle premesse de L’infinita Fabbrica del Duomo. D’altronde il titolo stesso dovrebbe indurre a porci qualche domanda. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti alla fine, bontà loro, una risposta grossomodo esplicita la forniscono sul perché di quel «infinita», che è aggettivo capace di andare al di là del semplice riferimento temporale.
La Fabbrica del Duomo è tale proprio perché è anzitutto non-finita, un cantiere a cielo aperto che ha visto passare guerre, generazioni ed epoche talmente diverse le une dalle altre che si potrebbe dire che questa maestosa Cattedrale è come se fosse stata in più pianeti. E quasi per una sorta di commovente riverenza, il film è quasi sprovvisto di umana presenza. Non semplicemente per l’ineludibile tono mistico che permea il film, come se la mistica riguardasse qualcun altro e non l’uomo, bensì perché davvero la protagonista ha da essere la Fabbrica.
In un raggio di tempo abbastanza ristretto D’Anolfi e Parenti toccano quasi tutto, dal marmo estrapolato dalla cave di Candoglia ai laboratori dove vengono riprodotte le statue, in primis la luminosa e rassicurante Madonnina. L’infinita Fabbrica del Duomo però ci parla anche e soprattutto della potenza del racconto, o per meglio dire della storia che si fa racconto. Poche inserzioni, ma frequenti, sotto forma di stralci di un libro su fondo nero, ci forniscono tutte quelle informazioni che, con ogni probabilità, non sarebbe stato cinematograficamente credibile veicolare in maniera diversa.
La placidità con cui scorrono le immagini, parecchie delle quali evocative, tutte curate da D’Anolfi, non è certo pietanze per tutti i palati. Il tenore è contemplativo, non strettamente narrativo, mosso da un rispetto profondo verso la materia trattata. Qualcosa che forse solo i milanesi possono cogliere a pieno, e nemmeno tutti bensì una sparuta parte. Se però il ritmo potrebbe tranquillamente non essere nelle corde di molti, il non risiedere a Milano, o anche solo il non aver idea di cosa significhi per questa città la sua Cattedrale, non è certo un limite.
Anzi, può darsi pure – ed entro una certa misura ritengo che gli autori anche questo si proponessero di raggiungere quale obiettivo – dicevamo, può darsi pure che qualcuno si senta stuzzicato. Da cosa esattamente? Beh, non ci aspettiamo che tutti o anche solo tanti condividano la commozione che certi passaggi riescono a suscitare, ma quantomeno la curiosità: cosa ha spinto un numero non calcolabile di persone, per lo più di umili origini e con mezzi risibili, a preferire il proverbiale «pane e cipolla» piuttosto che far mancare il proprio sostegno a quell’imponente luogo di culto che avvertivano di loro proprietà? Proprietà condivisa, s’intende: erano tempi in cui le persone, passanti per lo più, non si facevano alcuno scrupolo a molestare anche l’artista più affermato con le loro osservazioni.
Certo, manca questo livello di lettura, che viene qui rievocato solo nelle sue implicazioni a nostro parere meno interessanti: una delle frasi che a un certo punto campeggiano sullo schermo esorta velatamente ad un ragionamento vertente su un incerto scontro di classe; i ricchi, se partecipavano alla costruzione, lo facevano solo per farsi belli, mentre i poveri erano sempre e soltanto mossi da nobili intenti. Ora, non sta a noi confutare una tesi del genere, ma ci è parsa una nota stonata. Leggera, ma stonata.
Perché per il resto non rimane che lasciarsi trasportare dalle immagini, non sempre suggestive, volutamente, ed in alcuni casi garbatamente indiscrete. Non ci riferiamo soltanto alle riprese fatte prima dell’apertura e dopo la chiusura della Cattedrale, bensì a quei momenti in cui ci viene illustrata la lavorazione di capitelli e statue per esempio; certosina, frutto di un’artigianalità che non disdegna affatto la tecnologia ma che è al tempo stesso mestiere. Senza commenti superflui o spiegazioni di sorta, né da parte degli artigiani né in voice-off. E per noi, in qualche modo, L’infinita Fabbrica del Duomo sta tutto lì, racchiuso nel calco di quel volto. Quello dell’ennesima Madonnina.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
L’infinita Fabbrica del Duomo (Italia, 2015) di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. In Concorso al Filmmaker International Film Festival 2015.