Rifkin’s Festival, recensione del film di Woody Allen
La cotta di un professore di cinema alle prese col proprio romanzo. I piacevoli tormenti di Woody Allen tornano in Rifkin’s Festival
A Mort Rifkin (Wallace Shawn) non piace più andare ai Festival; lui, insegnante di cinema per anni, guarda con sospetto alle produzioni recenti, ossia quelle degli ultimi quarant’anni circa. Il cinema europeo venuto fuori a cavallo tra i ’50 e i ’60 gli ha aperto un mondo, rendendolo migliore, dandogli accesso a verità per lo più sconosciute ai non iniziati, ché poi sono tutti quelli che non riesco ad apprezzare certi film. Fatto sta che a San Sebastián il nostro ci va, più che altro per capire se, come crede, la moglie, Sue (Gina Gershon), se la intenda davvero con un giovane regista francese (Louis Garrel), astro nascente della cinematografia mondiale, per cui cura la promozione dell’ultimo suo film in qualità di addetta stampa. Questa la premessa di Rifkin’s Festival.
Ma perché, appunto, il festival di Rifkin? Woody Allen offre una risposta a questa domanda, tra il serio e il faceto, prendendo alla lettera il titolo. Ciò a cui si assiste infatti è proprio l’avvicendarsi di film, proiettati, sognati, immaginati, rievocati, riadattati ad una realtà, quella di Mort, sulla quale a quest’ultimo hanno avuto poco o nulla da dire. Di fatto l’intera parabola altro non è che il tentativo di tornare al cinema attraverso un processo di liberazione dal cinema stesso. Lo so, sembra la classica affermazione «da critico», perciò vedo almeno di spiegarmi meglio.
Rifkin’s Festival consta, tra le altre cose, di svariate rappresentazioni, scrupolose il giusto, di film celebri: dall’8½ di Fellini, al Jules e Jim di Truffaut, passando per Godard e Bergman, senza accantonare il cinema giapponese post-seconda guerra mondiale. Mort ci entra proprio in questi film, le sue peripezie s’innestano e si sovrappongono a quelle lì narrate; senonché nessuna di queste “immersioni” consentono allo sventurato di venire a capo del delicato periodo che sta attraversando. Proprio quando ce n’è più bisogno, insomma, i suoi amati film, che venera come reliquie, si rivelano insufficienti, se non addirittura inutili al fine di raccapezzarsi nell’ambito di ciò che gli sta accadendo, tradendolo. Ok, il triangolo amoroso, il tema del doppio, l’aver capito di non aver risolto quasi nulla con troppe figure del suo passato… insomma, tutte cose che su cui quei capolavori sono imperniati, e sulle quali si soffermano in maniera persino illuminante. Ma cos’ha a che fare questo con Mort?
Allen non nega, non esplicitamente almeno, che vi sia del vero, dell’autentico in quelle storie, solo che, appunto, sono le loro storie, quelle di chi le ha concepite, scritte e poi girate. Immaginate Mort, ateo convinto, ragionare sulla punizione divina per via del Peccato? Bergman può, perché da certi quesiti lui era tormentato sul serio, e non si può aver dubbio, guardando Persona o un qualunque altro film del regista svedese, sul fatto che quei ritratti fossero profondamente sinceri, onesti, per cui al loro interno la vita fluisce eccome, anche se in forma di surrogato.
Per la prima volta, probabilmente, Mort viene messo spalle al muro e questa consapevolezza, esistenzialmente devastante, più che una tragedia è una simpatica farsa. Il dialogo con la Morte, sulla scorta de Il settimo sigillo, è una summa ragionevole e calzante di questo processo, con sora Morte, persino lei, satura, stanca d’intrattenere quella discussione col suo avversario, per cui si alza e, prima di scomparire, non le resta che dare qualche consiglio su come rinviare il più possibile il loro prossimo incontro: mangiare frutta e verdura, fare esercizio più spesso possibile, meglio la frequenza che l’intensità, non fumare, cose così.
Un Woody Allen che, ancora una volta, si sforza di non prendersi troppo sul serio, e che, come spesso accade, ci riesce solo in parte. Il che non può essere diversamente, perché già la sola idea di dover tornare sistematicamente sui propri limiti, le proprie paturnie e tutto ciò che non gli dà pace è di per sé espressione del lavoro di una persona che seria lo è, che gli piaccia o meno. È nel riuscire a non essere serioso, semmai, che sta la virtù del suo cinema, che le sue storie coinvolgano o meno, dunque anche nei casi meno riusciti. Il suo Mort oscilla tra il prendere tutto seriamente ed il non considerare alcunché degno di essere approcciato con serietà: ripiegato su sé stesso, l’unica cosa che conta è il suo libro, quello che non ha mai scritto e che mai scriverà. E finché sarà così sarà sempre un capolavoro, degno dei russi che tanto ama, dei Čechov, degli Shakespeare e dei Joyce.
Una parodia del concetto di perfezionismo che si riflette anche nell’atteggiamento verso le sue infatuazioni, così come rapporti più consolidati qual è quello con la moglie. L’incompiutezza di Mort passa attraverso l’oblio rispetto alle ragioni per cui si è recato in Spagna allorché conosce un’avvenente dottoressa (Elena Anaya), la quale non può che essere idealizzata come tutto il resto. A un certo punto Allen ci anticipa persino dove andrà a parare alla fine, e siamo ancora metà film, quando, per prendere in giro il regista di cui forse la moglie si è invaghita (o forse no), se ne esce con un’invettiva all’indirizzo di quella Hollywood alla quale non si può perdonare l’aver spacciato i suoi lieto fine per qualcosa di realistico. Questa è forse l’unica lezione che ha imparato dal cinema, Mort, il che è alquanto indicativo.
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Rifkin’s Festival è perciò un piacevole spaccato di tutto quanto appena elencato, sebbene per sommi capi. Ma pure in merito ad altro, come al peso specifico di certe frasi fatte, ossia di quei concetti talmente ovvi ed abusati che a un certo punto creano un cortocircuito: se lo pensano tutti, e tutti lo dicono, sarà forse perché un fondo di verità c’è? Eppure non si può fare a meno di sorridere per l’insofferenza con cui Allen fa pronunciare al regista cialtrone e pieno di sé, ma vuoto a perdere, frasi del tipo: «adoro il mare, l’unico posto in cui si può essere davvero liberi». Che rispondi a un’affermazione del genere? E cosa infastidisce a riguardo… che sia inattaccabile? Che la dicano tutti? Che la dicano soprattutto gli animi semplici? Che sia una stupidaggine? Che sia ovvia, appunto? Figurarsi per uno secondo cui l’unica indagine sensata consiste nel capire se Dio esista e che cosa eventualmente voglia da noi…
Non si sa, però tanto basta a sorriderne. È questo l’ultimo Allen, residualmente cervellotico, uno che si è oramai arreso all’idea di non riuscire a smettere a pensare troppo anche se lo volesse, ed allora perché non cercare di alleggerire almeno un po’ tale abitudine, forse un limite, forse una risorsa? Anche questo, boh, chi può dirlo? C’è però del vero, qualcosa di autentico, appunto, per riallacciarmi a quanto evidenziato sopra in merito a certi capisaldi del Cinema di sempre, con i quali Allen non cerca il confronto, se non per ridimensionarsi, per ammettere che l’idea a tratti forse lo sfiora ancora ma che a questo punto non ha nemmeno così tanto senso cercare i paragoni. Una serie di considerazioni espresse, messe nero su bianco, per quanto bislacche, stravaganti, di cui magari non interessa nemmeno poi molto, è sempre meglio di grandi verità tenute per sé, custodite gelosamente in quel cassetto inaccessibile a chicchessia e che ci si porta con sé sotto terra.
Rifkin’s Festival (Italia-Spagna, 2021), di Woody Allen, con Wallace Shawn, Gina Gershon, Louis Garrel, Elena Anaya, Sergi López e Christoph Walt. Nelle nostre sale da giovedì 6 maggio 2021.