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Toshiro Mifune e il Giappone cento anni dopo

Il primo aprile del 1920 nasceva Toshiro Mifune, colui che più di ogni altro ha incarnato il volto del Giappone post-bellico

pubblicato 1 Aprile 2020 aggiornato 29 Luglio 2020 12:09


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[quote layout=”big” cite=”Toshirō Mifune]Non sono sempre grandioso nei film, ma sono sempre fedele allo spirito giapponese.[/quote]

Un nome indissolubilmente legato a quello di uno dei giganti del cinema, ossia il maestro Akira Kurosawa. Con lui Toshiro Mifune, di cui oggi ricorre il centenario, ha girato la bellezza di sedici film. A riguardo, uno dei più importanti e stretti collaboratori di Kurosawa, Teruyo Nogami, ebbe a dire: «senza Toshiro Mifune i film di Akira Kurosawa non sarebbero mai esistiti».

Un’affermazione senz’altro forte, che però dà la dimensione. D’altronde lo stesso Kurosawa non tenne per sé certo tipo di considerazioni: «Mifune possedeva quel tipo di talento che non ho mai visto prima nel cinema giapponese. Più di ogni altra cosa, era la velocità attraverso cui si esprimeva che lasciava di stucco. Un normale attore giapponese potrebbe avere bisogno di tre metri di pellicola per lasciare un segno; a Mifune ne bastava meno di uno».

Non è un caso se in apertura segnaliamo il video montato da Criterion per l’occasione: in un lasso di tempo ristretto non si riesce certamente a tratteggiare in maniera precisa e puntuale l’entità del personaggio, ma quelle poche sequenze si rivelano nondimeno adatte a descrivere quale tipo di attore e quale contributo possa aver dato Mifune nel corso della sua lunga e densa carriera.

Malgrado sia innegabile l’appartenenza che lo lega al genere dei jidai geki, i film in costume, Mifune fu attore versatile, abile a mimetizzarsi piuttosto bene in un periodo piuttosto affollato, quale fu quello del dopoguerra, dove in Giappone si produssero tanti film ed afferenti ai generi più svariati. E dire che l’attore nemmeno voleva farlo; niente male per uno che alla fine conta all’attivo la bellezza di 143 film (quasi tutti per il cinema, pochi per la TV) tra il 1947 ed il 1995, a partire dal suo debutto in Ginrei no hate (Le montagne d’argento), proprio di Kurosawa.

Un performer a tutto tondo, se si pensa che il nostro al liceo eccelleva in quasi tutti gli sport nazionali, tipo karate, kendo e kyūdō (tiro con l’arco). La sua fisicità ebbe un ruolo fondamentale difatti, forse a tal punto da costituire l’elemento che più di ogni altro faceva la differenza; una virilità d’altri tempi, che ben si conciliava con quei personaggi che più di altri l’hanno sdoganato anche in Occidente, spesso samurai.

Componente pregnante, che ha reso Mifune una sorta di ambasciatore, se non addirittura una metafora di quel Giappone pre e post Seconda Guerra Mondiale, il persistere di certi elementi tradizionali all’interno di una cultura che stava inevitabilmente cambiando, marchiata dall’onta ingovernabile di una sconfitta che per certi versi significò la fine di una lunga era iniziata secoli addietro.

George Lucas s’ispirò al suo generale Makabe Rokurōta ne La fortezza nascosta (1959) allorché si accostò per la prima volta alla sceneggiatura del primo Star Wars, apprezzando tantissimo la solitudine dei due protagonisti, come lo stesso Lucas racconta nell’intervista qui di seguito.

E per forza s’ha da tornare al sodalizio con Kurosawa almeno un’ultima volta, rievocando quel triste ancorché rivelatorio passaggio in cui il celeberrimo regista tentò il suicidio per via dell’insuccesso riscontrato col suo primo film post-Mifune, Dodes’ka-den (1970). Mizoguchi ebbe Kinuyo Tanaka, Ozu invece Chishu Ryu e Setsuko Hara; per Kurosawa fu lui, Toshiro Mifune.

Nel suo appassionato approfondimento, Andrea Grunert, chiosa con un’appropriata rappresentazione delle virtù di Mifune: naturalistico ma teatrale, eccentrico ma sottile. Un’apparente contradditorietà che si spiega con l’ineludibile identità multisfaccettata di un Paese intero sulla cui Tradizione, contrariamente a quanto suggerito dalla Geografia, il sole stava inesorabilmente tramontando.

Nessuno più e meglio di Mifune è forse riuscito ad incarnare le inevitabili complessità di tale processo: un giullare serio, solenne, pazzo proprio perché più sano di tutti gli altri. Se è vero, come ha detto Lav Diaz, che ricorderemo il mondo attraverso il cinema, è quantomeno probabile che potremmo avvicinarci alla verità di quel passaggio epocale avvenuto a metà secolo scorso in Giappone grazie alle espressioni ed all’esuberante presenza di Mifune davanti a una macchina da presa.