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Cannes 2021, Ha’berech (Ahed’s Knee), recensione del film di Nadav Lapid

Più diretto ma non meno libero il discorso di Lapid, che torna in patria per un ritratto doloroso ma sentito sulle condizioni in cui versa il suo Paese

8 Luglio 2021 02:31

C’è un aspetto del cinema di Nadav Lapid che chi scrive trova irresistibile, ossia la sua libertà. Non si tratta di fare come gli pare, ma di farlo senza imporsi dei paletti che ne vanificherebbero la verve. Pensiamo a Synonymes, il film che nel 2019 gli è valso l’Orso d’oro: la sua sregolatezza, a tutti i livelli, è ciò che lo rende speciale a priori, senza contare la portata del discorso e la performance eccezionale di Tom Mercier. Ecco, nel prologo ad Ha’berech (da qui in avanti Ahed’s Knee) viene reso chiaro ciò che intendo dire.

Una donna in moto si reca a un casting, dove comincia ad intonare un motivetto per prendere parte a un film; i provini procedono ma la macchina da presa indugia solo su una serie di ginocchia. Come mai? Beh, sono quelle domande che è già pericoloso porsi, figurarsi tentare di rispondere; di tanto in tanto serve anche un pizzico di pudore. Diciamo però che colui che osserva è uno dei due protagonisti di questa storia, un regista (Avshalom Pollak) che sta preparando il suo prossimo film.

Prima però vola verso un piccolo paesino sperduto, nel deserto di Arava, dove gli tocca presentare un suo vecchio film, oltre che incontrare una ragazza del luogo che lavora per conto del Ministero della Cultura, Yahalom (Nur Fibak). Tra i due s’instaura quasi immediatamente una tensione sessuale tangibile, su cui Lapid ricama a lungo; è bene a questo punto evidenziare che Ahed’s Knee non è meno politico dei precedenti lungometraggi del regista israeliano, che anche stavolta ondeggia tra l’amore per la sua patria e la repulsione per certa cultura del suo Paese, a quanto pare dominante a livello governativo oltre che sociale.

In passato Lapid ha cercato di mantenere una posizione non dico ambigua, ma per lo meno più ambivalente, evitando di esporsi in maniera roboante, preferendo piuttosto un approccio meno diretto, verrebbe persino da dire più giocoso. In questo suo ultimo lavoro, invece, il protagonista, una sorta di alter-ego, è come una pentola a pressione, la qual cosa risulta percettibile sin dalle prime battute, il relazionarsi con Yahalom dettato sì da un malcelato desiderio, ma anche da un certo antagonismo.

Quando ci si accosta a film che affondano così tanto nel ritratto di un contesto sociale e politico, quale che sia la chiave di lettura scelta, è quasi automatico cominciare a cercare metafore, sicuri talvolta di averle persino scovate. Questo perché si tende a immaginare la Politica come qualcosa di generale, se non addirittura generica, oltre le persone; come se per attardarsi su certe dinamiche l’unica fosse quella di filosofeggiare su sistemi e assetti, scegliendo a priori una parte e procedendo per tare ideologiche. Lapid ha sempre cercato di togliere lo sgabello su cui vorrebbero poggiarsi certi ragionamenti, concentrandosi proprio su quelle persone che sono la materia di certi processi (politici).

Anziché perciò scorgere questa o quell’altra cosa nei suoi personaggi o in certe loro azioni, si rivela di gran lunga più opportuno, nonché utile, trattarli per quello che sono, ossia, appunto, persone. È chiaro che il regista veda nell’avvenente Yahalom non solo una donna con cui trascorrerebbe almeno una notte, bensì pure l’espressione del controllo di un manipolo di politicanti che vogliono imporre il proprio modo di vedere le cose, avendo peraltro i mezzi per riuscirci; ma è altresì vero che, in questo gioco delle parti, non si può stabilire in maniera inequivocabile chi dei due sia migliore dell’altro. Ed in questo forse c’è quel pelo di realismo che qualcuno potrebbe equivocare per cinismo, quantunque qui non si stia dicendo che alla fine uno vale l’altro.

C’è un lavoro di scrittura sopraffino a tal proposito, che trova il suo apice nel ribaltamento che precede l’epilogo di Ahed’s Knee, quando, senza invertire i ruoli, si scopre che sia Yahalom che noi spettatori abbiamo assistito a un mezzo depistaggio. Non insisto, ma le implicazioni sono notevoli, perché così i personaggi prendono vita, smarcandosi da quella bidimensionalità che è potabile a malapena per farci propaganda. Lì, un attimo dopo che il regista è uscito allo scoperto, e con esso lo stesso Lapid, il quale lascia che la miccia si esaurisca e la bomba ad orologeria esploda.

Senz’altro meno ispirato di Synonymes, in casa Lapid prosegue il discorso portato avanti in Policeman e Haganenet, legandolo in particolar modo a quest’ultimo in rapporto al doppio binario Arte/Politica, se vogliamo centrale in Ahed’s Knee. Lo fa forse in tono minore, senza più mezzi termini, ma non per questo ne risente particolarmente l’incisività del discorso, tenuta a un buon livello per via del taglio alquanto personale, intimo persino. Dunque un’altra meditazione sulla condizione d’Israele, su quei limiti che, a dire del regista, non riesce a superare e che investono la vita delle persone nel quotidiano, non in astratto. Una situazione evidentemente sempre meno sostenibile per Lapid, che prova a sublimare attraverso il racconto per immagini il dolore di assistere a tale spettacolo con la consapevolezza di non poter far alcunché per rimediare.

Ahed’s Knee (Ha’berech, Israele/Francia, 2021) di Nadav Lapid. Con Nur Fibak ed Avshalom Pollak. In Concorso.