Cannes 2021, Nitram, recensione del film di Justin Kurzel
Con Nitram Kurzel si accosta al massacro di Port Arthur focalizzandosi sulla vita di Martin Bryant negli anni che precedono la strage
Nitram (Caleb Landry Jones) è un ragazzino problematico. La madre (Judy Davis) lo tollera a fatica, il padre (Anthony LaPaglia) invece ha trovato il modo di relazionarcisi, sostanzialmente assecondandolo. L’ultimo film di Justin Kurzel è anzitutto una storia familiare; sarebbe infatti fuorviante immaginare quanto accade nel corso del racconto senza non solo partire ma costantemente tornare a questo nucleo composto da tre persone.
In Tasmania, Australia, Nitram (il cui vero nome è Martin Bryant, anche se nel film non viene mai detto) si trascina come l’ultimo degli emarginati. Alcune tare comportamentali confermano l’instabilità di questo ragazzo, una mina vagante, imprevedibile, sempre pronto ad accendersi da un momento all’altro. I suoi genitori, come accennato, non sanno come tenerlo a bada, dunque l’unica soluzione che hanno trovato è quella di prenderlo col suo verso. Già nella prima parte di Nitram emerge il difetto principe, ossia ciò che ha più segnato, in negativo, la vita del ragazzo, ossia l’incapacità da parte dei genitori nel gestirlo. Tutto il resto è una conseguenza diretta di questo vizio originale.
Il padre ha un sogno, ossia quello di acquistare questa proprietà sulla quale praticamente ha scommesso tutto, con l’intento di lasciarla al figlio. Non è chiaro se quest’ultimo si renda conto di quanto il proprio genitore ci tenga, di cosa significhi per lui, né veniamo messi a parte del perché il padre abbia questa fissazione. Per certi versi si potrebbe far risalire proprio al papà le difficoltà del ragazzo, ossessionato e ossessionante, indisciplinato all’inverosimile, che non ammette correzioni. Il quadretto è chiaro quando, nelle battute iniziali, sono tutti a tavola e la madre impone al figlio di lavarsi le mani prima di mangiare; il marito dice di soprassedere, mentre Nitram, riluttante, l’asseconda, salvo poi tornare completamente nudo a sedersi al tavolo.
C’è un momento in cui le cose sembrano girare diversamente, ossia l’incontro con Helen (Essie Davis), una donna ben più matura di Nitram, che si affeziona al ragazzo. Da una parte ci sono elementi per poter guardare con tenerezza al modo in cui i due trascorrono il proprio tempo, mentre dall’altra la condizione di Helen lascia non poco interdetti, di fatto una cinquantenne che vive da sola in una casa immensa, coi suoi cani. Fino alla fine non si capisce mai davvero di che si tratti, ossia ogni tentativo di definire il loro rapporto si rivela per lo più aleatorio, il che credo sia voluto.
In fondo è la cifra dell’ultimo lavoro di Kurzel, la cui scrittura opera per sottrazione, seguendo un po’ lo schema non solo del più noto Elephant (2003) di Gus Van Saant, ma pure quello di un film meno conosciuto, strutturato proprio sulla base di questa ritrosia a mostrare, ossia Dark Night (2016) di Tim Sutton. Approcci differenti, s’intenda, ma che per economia, oltre che chiaramente per tematica, in qualche modo si possono accomunare. Qui lo sceneggiatore Shaun Grant cerca di spremere il più possibile della parabola di Bryant, isolando quegli episodi che debbono dare contezza di un malessere che riguarda sì il protagonista del film, ma che in fin dei conti ha a che vedere con un’intera collettività.
Il finale, a questo proposito, è piuttosto esplicito. Tutto Nitram altro non rappresenta infatti, a questo punto possiamo pure essere più espliciti, che l’origin story di un assassino che ha commesso uno dei massacri più cruenti di sempre in solitaria e con armi da fuoco, finendo col costringere il Parlamento australiano a rivedere le leggi che regolano l’acquisto e il possesso di armi. Nel finale però, per l’appunto, ci viene altresì detto che quanto deliberato a suo tempo non ha avuto chissà quale effetto, a conferma circa il fatto che la questione sia ben più complessa, facendo capo a logiche di natura culturale, quindi difficilmente regolabili solo mediante Legge.
In una delle scene più emblematiche, Nitram si reca presso un rivenditore di armi per fare degli acquisti. L’unica indicazione che abbiamo riguardo a questo pallino del ragazzo sta in un botta e risposta tra lui ed Helen, quando di punto in bianco lui chiede a lei dei soldi per acquistare delle armi, giustificando la richiesta con la necessità di doversi difendere. Salto in avanti, questo spettro ritorna sul finire, quando oramai Bryant ha fatto la sua scelta ed allora gli tocca essere pratico e capire come realizzare il proprio proposito. Tornando perciò alla scena in armeria, è quasi surreale: il proprietario si comporta come se stesse vendendo un paio di scarpe, per certi versi sembra persino disinteressato, come se lui lì fosse semplicemente un dipendente.
«No drama» ripete a più riprese, non senza suscitare un minimo d’ilarità, mentre il giovane gli ha messo sul bancone questo borsone pieno di soldi in contanti. Lui resta professionale, sembra persino che non voglia approfittare della situazione, e si rapporta con Nitram come se quest’ultimo ci stesse totalmente con la testa. Eppure non ha scuse: quando chiede al ragazzo il porto d’armi e quest’ultimo, caduto dal pero, dimostra di non avere la più pallida idea di cosa si tratti, il tizio fa lo gnorri e ragiona subito su come aggirare la cosa, con la naturalezza di chi vende frutta al mercato.
Ecco, malgrado il personaggio di Jones sia sempre presente in scena, e nonostante sia lui di fatto a portare avanti la trama, con le sue improvvide trovate, raptus estemporanei che, se non colpiscono per la violenza lo fanno per l’assurdità, alla fine dei giochi sono i comprimari a fare la differenza. Il summenzionato proprietario del negozio di armi è uno, ma ancora più significativa nell’economia del racconto è senz’altro la madre, questa figura che aleggia sempre, costantemente sullo sfondo eppure fondamentale per comprendere alcuni aspetti salienti.
Nei momenti chiave, infatti, lei c’è eccome, ed il suo mettersi da parte genera un impatto di gran lunga maggiore rispetto a chi è coinvolto direttamente nell’azione. È fondamentale, per esempio, quando si limita a chiedere ad Helen, al loro primo incontro, quale sia il suo gioco, posto che ve ne sia uno, un breve dialogo che ci restituisce una figura più complessa di quello che sembrava fino a qualche sequenza prima. O quando, per citarne un’altra, il padre di Bryant cade in una sorta di depressione, ed allora la madre, sconsiderata, chiede aiuto proprio al ragazzo. Ecco, uno dei momenti rivelatori è proprio quello: la madre che osserva il figlio prendere a pugni il marito, a distanza, senza tradire alcuna reazione.
Quanto appena detto spiega almeno in parte come mai Nitram si riveli meno potente di quanto vorrebbe. Certo, la performance di Jones è brillante e disturbante al contempo, quindi funziona, il che tende a compensare i limiti di un ritratto non facile da strutturare. Si è fatto cenno a una certa economia, la qual cosa aiuta, ma non per questo Nitram riesce a porsi al di là, distinguersi, di fatto risultando meno incisivo e rivelatorio rispetto ai due titoli menzionati sopra. Non era facile, va riconosciuto, e l’idea di non mostrare alcuni dei passaggi più significativi, nonché più cruenti, lasciandoli fuori campo o saltandoli in toto, non costituisce certo una scelta coraggiosa o particolarmente ricercata, quantunque opportuna.
È chiaro che Kurzel abbia scommesso tutto sul suo protagonista, finendo però col restarne un po’ schiacciato. Opporre al quieto andamento l’esplosività di Bryant è una misura che ha un suo perché ma che tende ad esaurire la propria forza man mano che la vicenda si sviluppa. In questo senso appare molto più efficace quanto fa Todd Phillips in quell’altra genesi di uno psicopatico che è Joker, dove il montare di un qualcosa, questo venir fuori da parte del personaggio che abbiamo alla fine, di fatto diverso rispetto a quello da cui si è partiti, si concretizza in un percorso condotto con più incisività. E questo a dispetto di un protagonista non meno oscurante, quel Joaquin Phoenix che accentra tutto su di sè, persino di più di quanto faccia Jones. D’altro canto la scelta di non far mai dire il vero nome di Bryant, da parte di Kurzel, potrebbe proprio essere indicativa circa il fatto che, a suo avviso, lui di fatto sia sempre stata la stessa persona che ha commesso quella strage.
Rileva relativamente il fatto che a Nitram non serva un alter-ego, una maschera, ma che, come in fondo già evidenziato, la sua è un’acquisizione di diverso tipo. A Bryant serve solo, a quanto pare, che gli si presenti l’occasione, il pretesto per compiere un gesto di cui sarebbe benissimo capace all’inizio di questa storia. E allora però qualcosa si è perde in corso d’opera, come se da qualche parte filtrasse via quell’intensità che non può certo essere ristabilita o alimentata da qualche exploit; per questo, ancorché angosciante, l’impatto di quell’epilogo così raccapricciante non va oltre il momento, chiosa spaventosa ma che non c’illumina granché, né in merito alla questione generale, che non per niente ha bisogno di considerazioni scritte a integrazione, tese a metterci a parte di cosa avvenne dopo in Australia, né sullo stesso protagonista, i suoi tormenti, la sua condizione. Così com’è, dunque, Nitram rappresenta per lo più una cronaca contraddistinta da qualche interessante impennata.
Nitram (Australia, 2021) di Justin Kurzel. Con Caleb Landry Jones, Judy Davis, Anthony LaPaglia, Essie Davis, Sean Keenan e Rick James. In Concorso.