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Miss Julie: recensione in anteprima

Dalla tragedia di August Strindberg, Liv Ullmann traspone nuovamente Miss Julie a sedici anni dal film di Mike Figgis. Visivamente sontuoso, il più grande pregio dell’attrice e regista svedese è anche il suo difetto relativamente a quest’ultimo lavoro, ossia il desiderio di non intromettersi più di tanto

pubblicato 18 Novembre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 11:00

Ci si trova combattuti nell’accostarsi a Miss Julie, quinto lungometraggio da regista per Liv Ullmann. Da un lato un’opera visivamente incantevole, merito principalmente del DoP russo, Mikhail Krichman, già direttore della fotografia di tutti i film di Andrey Zvyagintsev, che qui davvero si supera. Non solo però. Anche delle interpretazioni notevoli, esasperate, certo, perché questa trasposizione dal Teatro viene ed al teatro ritorna. Tuttavia c’è anche un altro aspetto da considerare relativamente a questo film da camera, ovvero la sua a tratti estenuante staticità.

Croce e delizia di un lavoro che si appropria della chiave giusta, non riuscendo però a contenere e sublimare la pesantezza di un testo che davanti alla macchina da presa soffre. Quasi fosse un lungo pianosequenza di 130 minuti, la Ullmann ci catapulta nell’Irlanda di fine ‘800, dove sotto i nostri si consuma questa perversa relazione tra una nobile ed il suo servo.

Il dramma, che sfocia in tragedia, è tutto lì, in quei dialoghi serrati e quasi colti di due persone che non si amano per ciò che sono ma per quello che ciascuno dei due rappresenta. C’è la noia delle donne abbienti dell’epoca, svezzate a romanzi d’amore e avventura, unica via di fuga all’interno di un contesto fatto per lo più di norme e formalità varie, entro il quale ci si sente soffocare ma che al tempo stesso non si ha mai il coraggio di abbandonare; e c’è l’invidia, finanche la grettezza del servo, che invece sogna di essere al posto del suo padrone, di coltivare quella noia alla quale anela spasmodicamente.

Una storia dell’epoca insomma, mossa dai quei sentimenti lì. Possono due persone appartenenti a mondi così distanti, per certi versi antitetici, innamorarsi davvero? Il testo sembra suggerirci che non solo le disparità sociali, ma anche altri sono gli elementi che rendono pressoché impossibile una fattispecie di questo tipo. In un periodo in cui ancora non aveva del tutto attecchito quell’ideologia che divide il mondo in due sole categorie, sfruttati e sfruttatori, c’è ancora spazio per la componente umana, retaggio di secoli che l’800 era già riuscito a cancellare.

La cucina di Miss Julie diviene perciò un ring in cui i due contendenti, Julie (Jessica Chastain) ed il servitore John (Colin Farrell), si lasciano, si prendono, si feriscono, si ammaccano, si uniscono, si distruggono. In altre parole, si corteggiano. Ma è un sordido flirtare il loro, viziato da un’epoca che non tollera affatto certe licenze, in nessuna forma. È allora il divieto a rendere perverso questo reciproco relazionarsi? «Farò tutto ciò che mi ordina, signora», «Bene», risponde Julie, «allora ti ordino di baciare il mio stivale». Una tensione erotica che contrassegna tanta parte del film, perché in fondo questa è una traccia essenziale.

Ma se da un lato appare sensata la scelta di non interferire più di tanto né con il testo né con le prove degli attori, tale scelta finisce un po’ col ritorcersi contro il film stesso. Salvo non lasciarsi letteralmente trascinare da questo botta e risposta via via più incalzante tra i due amanti clandestini, il peso del testo si avverte tutto, e continuare a seguire l’evolversi della vicenda rischia di divenire provante. La teatralità delle performance, soprattutto da parte della Chastain, cercano in qualche modo di ovviare a quello che poco sopra abbiamo implicitamente definito «eccesso di staticità». Prove su cui c’è poco da dire: laddove la Chastain pecca nel suo pressoché inesistente accento britannico, Farrell, che su questo fronte si è sempre mosso bene, riproduce un credibilissimo irlandese.

Ciò di cui forse si avverte la mancanza, dunque, è una regia più forte, che riuscisse a fare tesoro della discrezione che la Ullmann ha mostrato, prendendosi però qualche rischio in più e rendere più dinamico questo ritratto claustrofobico. Di solito, a fronte di così belle immagini, si parla di autocompiacimento e via discorrendo; no, non ci pare questo il caso, però non si può negare che l’attenzione cada troppo spesso lì, segno che il problema non stia tanto nell’eccellente qualità della fotografia quanto nella difficoltà ad escogitare qualcosa che riesca a sostenerla. E non c’è tecnica che tiene: Miss Julie non è affatto un lavoro mediocre, anzi, ma certa deferenza, comprensibile, termina col frustrare uno scenario già difficile da trasporre. Un po’ più di fiducia nel mezzo che si adopera e un po’ meno in quello da cui proviene la fonte, avrebbe forse contribuito ad alleggerire il tutto quel tanto che basta per essere più accessibile pur mantenendone l’integrità.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5.5″ layout=”left”]

Miss Julie (Julie, Regno Unito-Norvegia, 2014) di Liv Ullmann. Con Jessica Chastain, Colin Farrell, Samantha Morton e Nora McMenamy. Nelle nostre sale da giovedì 19 novembre.