Il collezionista di carte, recensione del film di Paul Schrader
Paul Schrader tratteggia con peculiare rigore un devastante ritratto personale e collettivo sull’ultimo ventennio americano ne Il collezionista di carte
Lavorare, trascinarsi, sperare. William Tell (Oscar Isaac) fa tutte queste cose, e le fa insieme: all’apparenza occupa le proprie giornate andando in giro per Casinò e racimolare un discreto gruzzoletto contando le carte. Ma come sempre in Paul Schrader, nessun atto è orizzontale, dato che vi è sempre qualcosa che punta nella direzione inversa. Questa verticalità è certamente uno degli aspetti salienti del cinema di Schrader, che pure stavolta, ne Il collezionista di carte (da qui in avanti The Card Counter), stipa nel suo austero studio sul personaggio tutte quelle tensioni che ne contraddistinguono il suo cinema.
Quello di William è un pellegrinaggio senza meta, un percorso mistico che trova la sua ragion d’essere nel semplice compiersi, a prescindere da una destinazione che a priori non è nemmeno contemplata. Isaac imprime al volto del suo personaggio quell’aura sfuggente, impenetrabile, che trasmette nondimeno una pesantezza rara. Anche lui, come altri personaggi concepiti dal regista, è uno che trova senso nell’abnegazione in ciò che fa, in quel totale abbandonarsi, non importa fino a che punto risulti gravoso. Per dire, a William sembra che giocare a carte non piaccia nemmeno, senonché è estremamente abile in ciò che fa e, soprattutto, avverte che quest’attività sia l’unica via possibile attraverso la quale poter anche solo sperare di venire a capo del conflitto irrisolto che lo sta logorando.
Con una precisione chirurgica, senza sbavature, Schrader delinea l’agire del suo protagonista, che non è solo un fare, bensì pure un meditare. È sempre guardingo William, osserva, come se contare le carte non rappresenti già di suo un impegno non da poco in termini d’attenzione. Ecco, l’attenzione: il modo in cui tutti questi personaggi sono immersi nel “qui e ora” si rivela l’unica spiegazione plausibile rispetto al come e fino a che punto ciascuno di loro riesca a calarsi così tanto e così bene in ciò fanno. Abitudinari, ossessivi, i personaggi di Schrader sono sempre dei professionisti; ma non lo fanno mai per gloria o per ricchezza, nossignore. Chi ha girato un film su Yukio Mishima non può certo essere rimasto indifferente alla lezione dello scrittore giapponese sull’esigenza del perfezionarsi quale espressione di bellezza massima, un bisogno radicale perciò.
In The Card Counter ci si appoggia su appena tre personaggi, più un quarto che assolve ad altro: oltre al già menzionato Will, abbiamo La Linda (Tiffany Haddish), una sorta di procuratrice di talenti al tavolo da gioco, e Kirk-con-la-c (Tye Sheridan). E l’incontro con quest’ultimo, ad un convegno sulla cybersicurezza, a stravolgere ogni cosa, tenuto dal Maggiore John Gordo (Willem Dafoe). Un appuntamento dettato dalla Provvidenza, ché altro modo di spiegarselo francamente pare non esserci; non una forzatura tuttavia, perché evidentemente c’è una mano che agisce sugli eventi, dal di fuori, per così dire, e rispetto alla quale solo William sa come regolarsi. Il che sembra paradossale, dato che è l’unico dei tre summenzionati a non avere un vero obiettivo, reale intendo. Perché per il resto una missione ce l’ha eccome, ed è quella di espiare per qualcosa di atroce che ha compiuto in passato.
Nel film questo passato viene rievocato in maniera febbricitante, musica Metal ad accompagnare queste immagini distorte, sature, quasi dipingessero un inferno, lo stesso in cui William è rimasto bloccato, vivendolo costantemente. Si tratta di Abu Ghraib, dove il nostro ha prestato servizio militare, macchiandosi dei crimini lì perpetrati, ossia la tortura sistematica dei detenuti. Ecco come Schrader innesta in questa parabola di redenzione, l’ennesima, un tema oltremodo delicato, ferita ancora aperta di un Paese, gli USA, che sta ancora cercando di metabolizzare il recente passato.
Quasi tutto ciò che ha a che vedere col profilo di William è espressione di un disagio collettivo, quantunque le ripercussioni ci vengano mostrate in relazione al singolo. Il suo prediligere l’anonimato, il non avere una fissa dimora, non voler mai stravincere, insomma, questo profondo senso del limite, non può che essere espressione di un malessere che porta in sé già la cura. L’andamento cadenzato del racconto, con quell’operare per sottrazione, cercando sempre di non caricare alcun passaggio, onde evitare di distogliere dall’essenziale, fa il resto.
Non ci si lasci tuttavia ingannare dall’apparente placidità di The Card Counter, che invece è opera tumultuosa, uno di quei film che ti braccano dall’inizio alla fine, prendendoti nella loro rete mentre cerchi invano di divincolarti. Non c’è nulla di gratuito, anche là dove si rivela essere sopra le righe, ed alcune delle sue intuizioni, seppur in maniera beffarda, sono illuminanti; su tutti, l’opporre il barare al gioco delle carte alla tortura. Due attività che in comune hanno un macabro risvolto ludico, e che descrivono lo svuotamento di una società alla cui dissoluzione partecipano tutti, chi più chi meno. Solo alcuni, però, avvertono il peso delle proprie responsabilità; e fino a che non hanno rimediato non possono trovare pace, la stessa che cerca William Tell (non per niente un nome fittizio), che a un simile traguardo ha votato la sua intera esistenza.
Il collezionista di carte (The Card Counter, USA, 2021) di Paul Schrader. Con Oscar Isaac, Tiffany Haddish, Tye Sheridan e Willem Dafoe. Nelle nostre sale da venerdì 3 settembre 2021. In Concorso.