Mona Lisa and the Blood Moon, recensione del film di Ana Lily Amirpour
Stralunato e sopra le righe, Mona Lisa and the Blood Moon è la celebrazione della stranezza in un contesto di fraintesa ordinarietà
«Dimentica ciò che sai». È il messaggio che trova un poliziotto in un biscotto della fortuna, non appena uscito dal ristorante. Sembra una frase lasciata lì, magari utile per ragioni secondarie, eppure, sui titoli di coda, tocca tornarci per soppressare quel che è Mona Lisa and the Blood Moon. Il più libero tra i film di Ana Lily Amirpour, buttato giù senza troppi filtri, proprio a preservarne una sorta di spontaneità. Il ventaglio delle fissazioni della regista, giunta al terzo film, c’è per intero, e di tutto ciò ne fa una piatto unico dal vario retrogusto.
Il film si apre su Mona Lisa (Jeon Jong-Seo) chiusa in un manicomio, con tanto di camicia di forza. Prima di questa scena vi è pero una sequenza ambientata in una palude; a voler osare, forse qualcosa che la ragazza sta immaginando. Sembra imbottita di farmaci, sguardo fisso nel vuoto, il percorso rocambolesco attraverso cui viene fuori da quella struttura è tutto un programma: ci riesce servendosi di un superpotere che le consente di manovrare chi ha di fronte, il che per un attimo si scaraventa nel reame dell’horror duro e puro. Da qui in avanti hanno inizio le scorribande della ragazza, direzione New Orleans. E accade per lo più tutto in una notte.
La particolarità della vicenda è che la protagonista sembra lei, ma è innegabile che la sua presenza serva principalmente a dare risalto a una serie di personaggi secondari più o meno proponibili, dotati di quell’umanità che a Mona Lisa sembra invece mancare. Quest’ultima è per certi versi una ragazzina qualunque: mangia schifezze, non si cura delle regole basilari dello stare in mezzo alla gente, ed in generale è totalmente per conto suo. Il film è perciò lei nella misura in cui ne incarna quell’atteggiamento stralunato, sopra le righe e al di là della Morale.
Nondimeno la giovane resta il collante per accumulare una serie di bizzarri profili che vengono a contatto con lei, e di cui la Amirpour s’interessa non meno che alla sua protagonista. C’è il rapper insolente che di mestiere fa però lo spacciatore (Ed Skrein), il summenzionato poliziotto (Craig Robinson), maldestro ma zelante, e poi ci sono loro, Bonnie (Kate Hudson), una spogliarellista d’esperienza che ricorda in qualche modo la Jennifer Lopez di Hustlers, e suo figlio Charlie (Evan Whitten), il quale stringe un rapporto d’amicizia particolare con Mona Lisa.
Mona Lisa and the Blood Moon è in fondo una storia di outsider, verso i quali la regista manifesta non solo interesse ma anche rispetto, pur nelle loro idiosincrasie, che anzi vengono esposte meglio di qualunque altra loro peculiarità. Il rimando al cinema di Harmony Korine è immediato, sia per temi che per estetica, quella al neon dei locali notturni e dei negozietti, ripresi con una fotografia di pregio ma ragionata. Analoga è l’impudenza ostentata, difesa, esaltata, che proprio per una questione di pesi e misure si rivela meno incisiva rispetto a quella che si può intravedere nei lavori di Korine, ma che comunque, se accolta con un minimo di benevolenza, fa breccia.
Il terzo film della Amirpour può perciò essere classificato come una giostra, allegro e spensierato, a tratti più del dovuto probabilmente, ma è altresì evidente che alla regista interessi più infondere vitalità a questa corsa allucinata anziché far quadrare i conti. Una di quelle strane opere che non si prestano alle mezze misure: o ci si affeziona alla loro stranezza, questo porsi al di là in maniera netta ed inequivocabile, oppure si tende a restarne alla larga per le medesime ragioni. L’unico suggerimento, qualora valga la pena darne uno, può semmai essere quello di lasciarsi guidare più dal cuore che dalla testa in situazioni del genere, dopodiché vada come vada.
Mona Lisa and the Blood Moon (USA, 2021) di Ana Lily Amirpour. Con Jeon Jong-seo, Kate Hudson, Craig Robinson, Evan Whitten e Ed Skrein. In Concorso.