La caja, recensione del film di Lorenzo Vigas
La ricerca del padre da parte di un ragazzino diventa occasione per sondare l’animo di un popolo posto dinanzi alla propria Storia
Hatzín (Hatzín Navarrete) si fa consegnare una cassa (La caja di cui al titolo); al suo interno c’è quello che rimane del padre, per lo più oggetti e una carta d’identità mezza bruciata. La nonna per telefono chiede come sta, e lui risponde che va tutto bene, in più di un’occasione. È un viaggio, questo, che il giovane ha intrapreso da solo e da solo vuole portare a termine. Mentre si muove a bordo di un autobus, scorge un volto familiare camminare lungo il marciapiedi; al che Hatzín domanda al conducente di fermarsi e farlo scendere, così da poter chiedere direttamente all’uomo: si tratta di Mario Enderle (Hernán Mendoza), uno che somiglia parecchio all’uomo nella foto del documento ritrovato nei pressi di una fossa comune. L’uomo insiste: «mi chiamo Mario, non so chi sia questo Esteban», ma Hatzín non si fa convinto e nei giorni a seguire cerca in tutti i modi, più e più volte, di avvicinarlo.
Rischia di prenderle di santa ragione il ragazzino, che mostra però un’ostinazione davanti alla quale Mario non riesce a resistere, finendo con il farlo lavorare insieme a lui, presso una fabbrica della zona. Siamo nel Nord-Ovest del Messico, il lavoro scarseggia, e un altro dei sottoposti di Mario si ritrova sistematicamente a fare un discorso motivazionale prima di reclutare nuove persone, incitando tutti a darsi da fare, con la manodopera cinese che incombe. Di tutta prima la situazione convince Hatzín, che si sente coinvolto, finanche voluto bene; d’altronde non cerca altro.
Poco per volta però monta qualcosa, lenta ma inesorabile, man mano che il ragazzino diventa parte integrante del gruppo. Hatzín è sveglio e percepisce che non tutto è trasparente da quelle parti; persone che scompaiono, traffici che non convincono. Ed è in questa fase che il rapporto con Mario diviene una spirale tremenda, mostrata con una placidità implacabile. A un certo punto persino noi che assistiamo “da fuori”, riconoscendo quali sensazioni e sentimenti muovono il piccolo protagonista, non vogliamo che questi campanelli d’allarme arrestino gli eventi. Da un lato la curiosità di capire cosa si cela dietro certi non limpidi passaggi, ma ancora di più e l’interesse verso il bene di Hatzín, capire se la sua ricerca possa realmente trovare compimento o meno.
Lorenzo Vigas, con quel velo d’austerità che avvolge l’intero racconto, riesce a non fermarsi al particolare della vicenda, ampliando il discorso ad un’intera area, rendendo il tutto anche un’analisi sociale che affonda nel torbido di dinamiche parallele, alla famiglia così come al mondo del lavoro. Una volta tanto non ci viene mostrata la criminalità organizzata così come veicolata da certo immaginario; in La caja è tutto molto più sottile ed il confine tra criminali e persone che semplicemente tentano di portare avanti un’azienda è davvero molto labile. L’apoteosi si compie quando lo stesso Hatzín si trova dinanzi a un bivio oltre il quale vi è l’abisso, costruito con non meno perizia, lasciato lì a maturare in vista del momento in cui ci si trova in prossimità dell’ultimo passo.
Non si tratta di offrire attenuanti; solo chi non ha fatto attenzione fin lì potrebbe cadere vittima di un equivoco così grossolano. La risolutezza di Hatzín, quell’espressione già da grande, di chi, a dispetto dell’anagrafe, ne ha vissute, unite alla dolcezza del suo sorriso, il calore di un gesto, un sguardo di complicità ricambiato, rappresentano conferme sufficienti rispetto alla buona fede del ragazzino, il quale desidera una cosa ed una soltanto, ossia una padre. La domanda che s’affaccia da un certo punto in avanti è perciò: fin dove è disposto a spingersi pur di raggiungere il proprio obiettivo?
Quesito terribile a prescindere, se ci pensa. Terribile perché mai e poi mai un giovane meno che adolescente dovrebbe trovarsi in una situazione del genere, avendo alla sua età ancora maturato davvero poco in merito a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, un discernimento in cui non si può pretendere si eccella in questa acerba stagione della vita. Dunque La caja finisce pure con l’essere, è inevitabile, anche un film politico, perché varie forme di orfanezza in ogni collettività non mancano mai, persone che avvertono la profonda necessità di figure rassicuranti, punti di riferimento ai quali aggrapparsi.
La paternità intesa perciò in accezione più ampia, un leader magari a cui affidarsi in toto, da seguire ciecamente. A suo modo, quindi, anche una lezione di Storia. Di suo Vigas integra un’idea di cinema algido, essenziale, ossia il contesto ideale per consentire a certe tensioni di venire fuori, accumulando, scena dopo scena, quella forza e quel vigore che alla fine della fiera fanno davvero la differenza. Con in più un affiatamento speciale tra i due protagonisti, ossia gli interpreti di Hatzín e Mario, il cui contributo si rivela non meno determinante. Ne La caja c’è verità perché pressoché nulla viene taciuto di ciò che è opportuno esternare, su tutti, una corroborante umanità che attecchisce come si deve.
La caja (Messico/USA, 2021) di Lorenzo Vigas. Con Hernán Mendoza, Hatzín Navarrete, Elián González, Cristina Zulueta, Dulce Alexa Alfaro e Graciela Beltrán. In Concorso.