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Belli di papà: recensione in anteprima

Diego Abatantuono mattatore in questo spaccato su una fetta di gioventù cresciuta nella bambagia. Opera senz’altro leggera, Belli di papà non è però superficiale, riuscendo a coniugare qualche spunto di riflessione con i toni della commedia malgrado tutto spensierata

pubblicato 17 Ottobre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 11:46

Vincenzo Liuzzi (Diego Abatantuono) è un imprenditore milanese di successo. Vedovo, con tre figli, si preoccupa della situazione di quest’ultimi, totalmente avulsi anche solo dal concetto di lavoro. Remake del messicano Nosotros Los Nobles, Belli di papà si sofferma su uno dei fenomeni meno discussi (sul serio intendo) ma al tempo stesso tutt’altro che marginali inerenti all’attualità, ossia una non meglio precisata “incapacità lavorativa” di una parte considerevole di nostri giovani.

Definizione che ci sta, per quanto semplicistica, tesa a descrivere un problema che per certi versi precede la tanto decantata disoccupazione. E stavolta la Colorado Film indovina il registro adatto, attestandosi su altri livelli rispetto ai due film di Paolo Ruffini. Vuoi per il trascinante Abatantuono, vuoi perché Guido Chiesa non è esattamente l’ultimo arrivato, sta di fatto che Belli di papà regge, malgrado certa voluta leggerezza che però non è mera superficialità.

Vincenzo ha a che fare con tre figli a cui non è mai mancato nulla, la qual cosa li ha resi allo sbando: Matteo (Andrea Pisani) fa finta di lavorare in azienda, uscendosene ogni due per tre con idee bislacche, che nemmeno lui sa peraltro come realizzare, atteggiandosi ad imprenditore di ‘sto c***o quando invece spende più soldi in aperitivi che altro. Chiara (Matilde Gioli) è in procinto di sposare il «coglione», epiteto a cui Vincenzo tiene molto, tanto da non volere che si faccia in alcun caso il suo vero nome; che è Loris (Francesco Facchinetti), un ciarlatano la cui unica dote è quella di intrallazzare e che intende fare di Chiara sua moglie per via più che altro della ricca dote. Il più piccolo, Andrea (Francesco Di Raimondo), è iscritto da due anni in Psicologia, dove non ha dato alcuna materia ma in compenso si è schiacciato una serie di componenti femminili del corpo docenti.

Troppo agio, troppa noncuranza, perciò Vincenzo decide inscenare una finta fuga dal Fisco e ripiegare, prole al seguito, in quel di Taranto, terra che gli ha dato i natali. Senza soldi, in un’abitazione fatiscente, i tre devono industriarsi a rimanere a galla. Strano a dirsi, la formula funziona, specie perché certe licenze sopra le righe non vengono nemmeno contemplate e, malgrado il terreno accidentato, non succede praticamente mai che il tutto scivoli in frasi ad effetto o sceneggiate di quart’ordine. Si sorride di questi ragazzi che, messi alla prova, si (ri)scoprono carichi di risorse, ciascuno a proprio modo. Senza nemmeno scadere in certo giovanilismo, tanto in voga ultimamente, per cui d’improvviso questi ragazzi ne escono come figure angelicate vittime dello stesso sistema che gli ha allevati e pure bene.

Riflettere perciò è possibile, ma anzitutto si deve ridere e sorridere, cosa in cui, dribblando forzature che stanno sempre dietro l’angolo, Belli di papà riesce. La denuncia sta altrove, s’intende, ma riuscire a parlare di qualcosa di un po’ più attuale, in maniera peraltro un pelo più sensata, è cosa assai rara nell’ambito di certe commedie italiane. Qualche giorno fa, per esempio, nella recensione di Io che amo solo te ci siamo fugacemente soffermati sul delicato concetto di cinema medio, rilevando che un lavoro più che modesto è solo un lavoro più che modesto e nulla più. Il film di Chiesa, al contrario, va senz’altro incontro ad una fascia di audience più ampia, senza però sacrificare a tale intenzione tutto il resto.

Come già accennato sopra, tanto fa la presenza di Abatantuono, che con la sua verve stempera a più riprese i toni: specie quando vengono raggiunti certi picchi drammatici, ecco la battuta del nostro che, simpaticamente, riequilibra le cose. Mai sboccata, né troppo attenta a certi paletti da salotto buono che altrove avrebbero inciso (sacrosanto rappresentare questi tre rampolli della Milano bene quasi schifati, almeno inizialmente, dall’ambiente meridionale, con tanto di uscite “scorrette” che però non sconfinano nell’offesa gratuita). Bene finanche Facchinetti, il cui Loris è un tale stronzo, vuoto a perdere, che alla fine nei suoi riguardi non si possono che coltivare i medesimi sentimenti di Vincenzo, che per coglione lo prende e per coglione lo lascia.

Non saprei sinceramente dire se si tratti o meno di un segnale incoraggiante; forse no. Ciononostante Belli di papà non ha certo bisogno di risollevare o addirittura inaugurare alcunché per risultare gradevole ad un pubblico piuttosto trasversale. Proponendo un discorso che, va bene, non è sempre incisivo, men che meno nel suo epilogo. Ma non si può certo dire che, attento com’è a sdrammatizzare un argomento così attuale, non riesca a suo modo anche ad offrire qualche spunto di riflessione, per quanto misero. Se non altro si avverte l’impegno nel non eccedere più di tanto in catalogazioni e prese di posizione manichee, deriva alla quale approda una larga maggioranza di opere italiane, non solo commedie ma anche drammi. E tanto può bastare anche ad un pubblico che può definirsi, stavolta sì, fieramente “medio”.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”6″ layout=”left”]

Belli di papà (Italia, 2015) di Guido Chiesa. Con Diego Abatantuono, Andrea Pisani, Matilde Gioli, Francesco Di Raimondo, Marco Zingaro, Barbara Tabita, Antonio Catania, Francesco Facchinetti, Nicola Nocella, Uccio De Santis e Niccolò Senni. Nelle nostre sale da giovedì 29 ottobre.