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Venezia 2015, Rabin: The Last Day – recensione in anteprima del film di Amos Gitai

In due ore e trenta Amos Gitai ripercorre l’ultimo giorno di Yitzhak Rabin, tentando soprattutto di ricostruire gli eventi che hanno condotto al suo attentato. Rabin, The Last Day è anche una pagina di storia

pubblicato 8 Settembre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 12:57

4 novembre 1995. Mentre si trova nella sua auto, il primo ministro israeliano, Yitzhak Rabin, viene assassinato a Tel Aviv da Yigal Amir. Una vicenda che ha irrimediabilmente cambiato il corso successivo degli eventi in quella regione, non solo in Israele. Lo stesso Simon Peres, grande amico di Rabin, lo dice all’inizio di quest’ultimo film di Amos Gitai: «se non fosse morto, forse oggi avremmo la pace». Sappiamo invece come andò a finire.

Rabin, The Last Day è la ricostruzione di quest’ultimo giorno di vita del primo ministro. Attingendo da materiale di repertorio, il regista di Ana Arabia (ultimo film del regista in Concorso a Venezia), integra la finzione pre e post-attentato. È un Gitai come sempre elegante, tecnicamente ricercato, ma stavolta meno fumoso rispetto soprattutto al suo ultimo lavoro, quello Tsili passato qui dal Lido ma in Orizzonti. Una critica composta ma non meno sentita, che funziona non soltanto al passato. Anzi. Partendo dal presupposto che non tutti abbiano confidenza con la vicenda, il film fornisce abbastanza elementi per sapersi orientare.

Senza entrare troppo nei dettagli, passando con una maestria notevole da un contesto all’altro, finendo con lo strutturare una storia che funziona molto bene malgrado abbia un costo. Il costo è quello di reggere la sua placidità; perché Rabin, The Last Day è inevitabilmente un film verboso ma non per questo dal mood meno cinematografico. Macchina quasi sempre a mano, la ricostruzione avviene attraverso le udienze della Commissione Shamgar, durate all’incirca cinque mesi. Muovendo le sue premesse dal courtroom, con scupolo e attenzione, perché ciò a cui si aspira è fare luce, senza furore ideologico.

Non si tratta infatti di stabilire chi sia l’assassino materiale, bensì come e perché si sia arrivati a tale epilogo nell’unica democrazia del Medio Oriente. Perché l’omicidio politico è affare di altri tipi di regime, tutt’altro che democratici, e questo viene a più riprese precisato. Quale brodo allora, quale cultura ha spinto un giovane ebreo ultra-ortodosso a compiere un gesto così grave? La risposta non tarda ad arrivare: «l’ebreo che danneggia la Terra d’Israele merita la morte». È la sentenza pronunciata dai nemici di Rabin, a loro dire confortati e confermati dal Talmud.

Rabin è stato considerato per lungo tempo un traditore della patria, uno che stava svendendo la sua Terra ed il suo popolo per amore di una pace che una fetta importante di popolazione pare non volesse. Proprio il diretto interessato si mostra perplesso relativamente alla condotta del suo rivale politico numero uno, quel Benjamin Netanyahu (detto Bibi), leader del Likud, partito di estrema destra; condotta definita ipocrita, visto che il nostro veniva invitato da Bibi per discutere, quando fino al giorno prima quest’ultimo aizzava la sua folla con affermazioni al vetriolo, per nulla contrariato, anzi, da cartelloni che ritraevano Rabin in divisa da Gestapo.

L’abilità di Gitai sta proprio nel battere dove il dente duole, mettendo a nudo certi meccanismi che una parte di cultura ebraica ha assimilato come violenta auto-difesa. Per cui non condividere certe posizioni politiche equivale d’ufficio a diventare nemico d’Israele, che tu sia ebreo o meno. Un meccanismo, suggerisce Gitai, che fino ad oggi si è rivelato “vincente”, nel senso che, in un modo o nell’altro, ha contribuito, per parte sua, a minare non soltanto eventuali accordi (ricordate le parole di Peres in apertura), ma anche la possibilità di discutere con raziocinio sui problemi di quell’area del mondo, che sono tanti, complessi e dalle responsabilità condivise.

E quando l’idiozia si fa grottesco, persino a Gitai non resta che adeguarsi. In una delle scene più acute del film, una donna interviene al tavolo dei detrattori di Rabin, esponendo la sua tesi da psicologo: il primo ministro è semplicemente schizofrenico. Una tesi supportata da motivazioni surreali, ma proposte in maniera tale da non scadere nella parodia, nel sarcasmo facile. L’ironia emerge immediatamente dopo, quando la dottoressa scoppia in lacrime al pensiero di quanto Rabin sia schizofrenico: «scusatemi, il punto è che è già successo altre volte nella storia, e non posso sopportarlo».

Piace molto questo Gitai, così asciutto e diretto, che in un solo film spazia senza troppi fronzoli dalla religione al diritto, passando per la politica. Senza lasciarsi prendere la mano, quantunque sia chiara la posizione a riguardo da parte dell’autore. Si cerca piuttosto di essere chiari, di incanalare la discussione tra gli argini della ragionevolezza, cercando di capire perché da quelle parti il conflitto sembra l’unico orizzonte possibile, una condizione permanente dalla quale tanti, troppi pare abbiano timore di uscire. Gitai propone il suo contributo, che a prescindere dalle posizioni, va tenuto in debita considerazione anche e forse soprattutto per i meriti artistici di un maestro che si cimenta in un progetto molto attento e circostanziato.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]

Rabin, The Last Day (Le Dernier jour de Rabin, Israele, Francia, 2015) di Amos Gitai. Con Ischac Hiskiya, Pini Mitelman, Michael Warshaviak, Einat Weizman, Rotem Keinan, Yogev Yefet e Yaël Abecassis.