Venezia 2015, Marguerite: recensione in anteprima del film di Xavier Giannoli
Nella Francia degli anni ’20 si consuma la tragedia di una nobildonna incapace di riconoscere il proprio mancato talento. Marguerite di Xavier Giannoli è un agrodolce approfondimento sulla mediocrità
Un filosofo disse qualcosa che suona più o meno così: «per ciò che piace si ha talento», aforisma citato e “corretto” da Ortega y Gasset in una delle sue opere. Ho pensato subito a quel filosofo e cosa avrebbe detto vedendo Marguerite, film di Xavier Giannoli. Marguerite Dumont è un’abbiente signora che non bada a spese per sostenere la sua più grande passione: il canto. Stonata come una campana, è benefattrice di un circolo altolocato i cui fautori, pur di farsi sostenere economicamente, accettano di tanto in tanto di sottoporsi al martirio di sentir cantare madame Dumont.
Giannoli gestisce bene questa prima parte, tesa a depistarci in merito alle reali capacità di Marguerite. In uno sfarzoso villone si riunisce la Parigi bene, alla quale la padrona di casa offre ore di musica d’alto livello, convocando orchestre e tenori che si stanno imponendo sulla scena parigina. Il pubblico pare in fermento: tutti aspettano la Regina Marguerite. E pure noi, francamente: che sarà mai? Finché non arriva, tra i sorrisi e gli applausi degli apparentemente spazientiti intervenuti, e si prepara, agghindata di tutto punto, a cantare. Bastano appena due note e nemmeno un orecchio sopraffino. È il delirio. Pessima. Ma ciò che è peggio… ignara della sua incapacità.
Così come in Superstar, Giannoli opta per l’esasperazione, a tal punto che la sua storia è surreale, malgrado stavolta sia vera. Scelta che a qualcuno potrebbe far storcere il naso, poiché effettivamente inverosimile; tuttavia mi pare che questo tipo di eccesso sia parte integrante della cifra stilistica di Giannoli, a cui piace giocare su questi risvolti improbabili che si protraggono a lungo. Tutti sanno che Marguerite è un disastro, ma nessuno glielo fa notare; chi per mancanza di coraggio, chi per delicatezza, altri perché ne approfittano per farsi beffe di lei. Come nel caso di un giovane anarchico, poeta dadaista che in Marguerite vede ciò che vuole vedere, ovvero l’ennesima frattura con un mondo che si vuole mettere a soqquadro, per cui ben venga l’esposizione di una che è la negazione fatta carne.
Ma il film di Giannoli è anzitutto pervaso da una tristezza ed una malinconia profonde. La protagonista crede davvero di essere in grado, difatti le sue reazioni ai finti complimenti o alle frecciatine sarcastiche denotano un’ingenuità mista a purezza che non possono che toccarci. In fondo Marguerite è una brava persona, e che male c’è se si ostina a corrispondere ad una missione per cui non è stata chiamata? Si capirà più avanti che il motivo è in realtà un altro. Attraverso il canto, che comunque adora, lei intende riconquistare il marito.
Quest’ultimo l’ha sposata solo per farsi acquistare un titolo nobiliare; dopodiché non può sopportarla. Si fa l’amante, fa buon viso a cattivo gioco, tratta con sufficienza la devozione della sua dolce metà. Ed è chiaro che la più esposta sia proprio quest’ultima, in balia dei suoi assurdi sogni di gloria, oltre che di un amore affatto corrisposto. Marguerite però non vira mai al dramma, essendo piuttosto una tragedia. A tratti comica, ma pur sempre tragedia.
A consentirle di portare avanti questa farsa è il suo fidato maggiordomo, in realtà il suo angelo custode. Si occupa di tutto, anche di impedire che la sua signora possa nutrire il più microscopico dei dubbi circa le sue potenzialità. Operando lontano dal suo sguardo, corrompendo, minacciando, ponendo rimedio a situazioni diversamente compromesse. Oltre ad essere, non a caso, uno degli elementi determinanti all’interno del puzzle. Di più non vi diciamo.
Marguerite da par suo è dolce, disponibile, aperta alla vita, non importa dove la conduca. Ad un certo punto viene fuori l’opportunità di cantare davanti a un pubblico, per così dire… non selezionato. Malgrado le riserve emotive, non ci pensa due volte ad accettare, senza peraltro prendere sottogamba l’impegno, anzi. Anche questa, però, si rivelerà una farsa, sebbene di diverso tipo, dove a farne le spese è proprio lei, ridicolizzata a sua stessa insaputa. Ecco, talvolta ci s’incazza proprio per questo trattamento, di come Marguerite incassi così incolpevolmente ma non meno innocentemente i duri colpi che le vengono assestati. Ma a lei non interessa e va avanti.
Vi lasciamo immaginare a quanti siparietti più o meno riusciti possa dare adito uno scenario di questo tipo. Infatti si ride e si sorride, talvolta risentendone, proprio perché ci si rende conto che lo si fa riguardo a disgrazie. Una “cattiveria” a cui forse Giannoli non riesce a dare del tutto ragione, ma che in funzione del discorso ha senso senz’altro. Certo, l’epilogo è tremendamente cinico, pure un po’ forzato probabilmente. Ma già il solo fatto che per tutto il film non si faccia altro che chiedersi se e a che punto Marguerite prenderà consapevolezza della realtà dei fatti, è qualcosa che depone decisamente a favore. Con un discorso imperniato sulla mediocrità per lo più incisivo, seguibilissimo, a patto di accettarne le particolarità. Insomma, si sorride e ci si commuove. In ogni caso va dato atto al lavoro di Giannoli di essere convincente nel costringerci a guardare in faccia la Marguerite che c’è in noi. E riuscire a sorriderne sarebbe davvero un traguardo.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”7″ layout=”left”]
Marguerite (Francia, 2015) di Xavier Giannoli. Con Catherine Frot, André Marcon, Michel Fau, Christa Theret, Denis Mpunga, Sylvain Dieuaide, Aubert Fenoy e Sophie Leboutte.