La foresta dei sogni – The Sea of Trees: recensione in anteprima del film di Gus Van Sant
Festival di Cannes 2015: The Sea of Trees non è solo il peggiore in concorso, ma è soprattutto il più brutto film del regista. Storia banalissima, riflessioni spirituali da mani nei capelli, schematismi offensivi: ma che succede a Gus Van Sant?
Non si vorrebbe nemmeno pensare che sia un film di Gus Van Sant, e invece la prima inquadratura non lascia dubbi: un cielo con nuvole. Una firma inconfondibile per gli appassionati di uno dei registi americani fondamentali degli ultimi 30 anni, che ha saputo rinnovarsi, prendersi rischi e girare opere enormi tra qualche scivolata, comprese quelle degli ultimi anni (ma chi scrive vorrebbe sempre discuterne, di queste presunte ‘scivolate’).
E però a La Foresta Dei sogni (in originale “The Sea of Trees”) non ci si vuole credere lo stesso. La banalissima sceneggiatura, scritta dal Chris Sparling di Buried e ATM, racconta la storia di un uomo che arriva nella foresta Aokigahara, in Giappone, alla base del Monte Fuji. La foresta è conosciuta come ‘mare di alberi’, ed è un posto in cui tantissime persone – almeno un centinaio all’anno – vanno a suicidarsi.
Arthur Brennan ci arriva dagli States con quella intenzione. Superati i cartelli che provano a dissuadere le persone dal togliersi la vita (“Ti è stata data dai tuoi genitori”, “La tua vita è preziosa”), s’incammina verso il centro della foresta con una bottiglietta d’acqua, delle pastiglie e una busta misteriosa indirizzata a Joan Brennan, sua moglie. La donna la vediamo nei continui flashback che lo script dedica alla vita del protagonista per motivare la scelta del suicidio in questa determinata foresta.
Qui però, prima di poter commettere l’atto definitivo, Arthur nota tra gli alberi un uomo giapponese. Sembra in difficoltà, allora gli va incontro: è stremato e insanguinato. Prova a indirizzarlo verso la strada che conduce all’uscita della foresta, ma si perdono entrambi. Comincia quindi una ‘relazione’ fra questi due sconosciuti agli antipodi, ma che sono arrivati lì con la stessa intenzione…
C’è qualcosa che non funziona sin da subito, in The Sea of Trees, forse sin dalla primissima scena. Tutto pare spiegato nel modo più ovvio possibile, tutto è girato in modo piattissimo, senza un minimo d’ispirazione. Le cose peggiorano quando Arthur incontra Takumi Nakamura, l’uomo giapponese, e i due si scambiano battute alla “Tu non capisci la mia cultura!” che implicano una riflessione proprio sullo scontro di culture da mani nei capelli.
Da questo discorso scaturisce di conseguenza anche quello sulla spiritualità, che Van Sant maneggia come un elefonatone in una piccola cristalleria. Sarà che la ‘spiritualità’ la trovava senza dialoghi e senza dover fare nulla a livello narrativo in film come Gerry, ‘survival movie’ che ha più punti di contatto con The Sea of Trees: ma qui la faccenda è straziante. Tra l’Americano che crede in Dio (ma in realtà è uno scienziato, indi…) e il Giapponese che spiega cosa sono gli spiriti Tamashii, si entra in un tunnel di pretenziosità naïve, persino offensive verso la cultura giapponese, da cui non si esce più.
Qualcuno ha provato a ‘difendere’ il film dicendo che, se lo avesse diretto un regista giapponese, staremmo qui ad adorarlo. Però questa lettura, oltre a essere francamente fuori luogo, fa addirittura il gioco piuttosto stupido del film: perché un autore giapponese un minimo navigato avrebbe ad esempio evitato l’uso costante e ‘orientaleggiante’ delle brutte musiche di Mason Bates. Tra l’altro il tappeto sonoro non dà tregua, e si rimpiangono i silenzi della Trilogia della Morte e soprattutto di quel Gerry che bisognerebbe riguardarsi all’istante per purificarsi da questa visione.
Van Sant e Sparling provano a dare vita e fremiti a questa noiosissima e ridicola storiellina New Age inserendo qualche brutto incidente ai due poveri protagonisti, compresa un’alluvione che li coglie di sorpresa in una grotta, e poi con i flashback. Qui prendono vita il background di Arthur e il rapporto contrastato con la moglie Joan. Eppure i loro litigi sono sempre risaputi (“Non ti interessa”, “Cosa?”, “Di nulla!”, dialogo ripetuto più volte, giusto non si capisse cosa la donna recrimina al marito), e la freddezza regna sovrana.
Certo, poi con battute inascoltabili il trio composto da Matthew McConaughey, Ken Watanabe e Naomi Watts non possono fare davvero nulla per salvare la baracca. Pure la fotografia di Kasper Tuxen non può fare miracoli (si gira molto di notte), e durante una scena con falò – con la quale ritorna nostalgicamente alla mente quella di Belli e dannati – si va di lens flare (il riflesso distorto della luce sull’obiettivo) che è proprio un ‘piacere’ alla vista.
Mi pare però che Van Sant abbia scelto di girare The Sea of Trees perché ci sono molti elementi che gli stanno a cuore, e che paiono uscire dritti da altri suoi film. Non c’è solo l’elemento di sopravvivenza nel ‘deserto’ alla Gerry, non c’è solo la dicotomia Vita/Morte che gli è cara da sempre, ma c’è anche un po’ de L’amore che resta. Vedere per credere.
Pare quindi ancora più assurdo che per tentare di storcere una lacrimuccia al pubblico si sia abbassato a infilare ottomila finali uno di seguito all’altro, che scavano una fossa sempre più profonda. Proprio lui, regista mai patetico a cui bastava un diario bruciato o una lettera non letta a un funerale per emozionare e far capire il percorso dei personaggi, tirare le fila di tutto un discorso, aprire un mondo che qui è chiuso sin dall’inizio.
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”1″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Antonio” value=”3″ layout=”left”]
La foresta dei sogni – (The Sea of Trees) – (USA 2015, drammatico 110′) di Gus Van Sant; con Matthew McConaughey, Naomi Watts, Jordan Gavaris, Ken Watanabe, Katie Aselton. In uscita il 28 aprile 2016.