A testa alta – La Tête haute: recensione del film d’apertura di Cannes 2015
Festival di Cannes 2015: è Emmanuelle Bercot ad aprire ufficialmente il Festival con il suo La Tête haute, che osserva quasi a mo’ di studio l’interessante parabola di un ragazzino “difficile” alle prese con la vita
Voci, urla, ogetti che volano. Nel frattempo un bimbo che osserva, un po’ sorpreso, forse addirittura divertito da tutto quell’incomprensibile frastuono. Malony è ancora un innocuo moccioso a cui piace giocare con le costruzioni, e sebbene le condizioni in cui è destinato a crescere siano tutto fuorché ottimali, nessuno può immaginare cosa sarebbe diventato a 15 anni. Per non sbagliare, lo dice sua madre: è un delinquente. Se lo dice lei.
Direi inevitabile il rimando a Mommy, con cui La Tête haute condivide effettivamente qualcosa in premessa, niente di più. Il film della Bercot opta per un approccio più freddo, snocciolando qua e là qualche momento di maggior impatto. Ma chi ha detto che sia per forza un male? Quella di Malony non si può certo dire che sia una vita straordinaria, al netto di una serie di furti d’auto che effettivamente lo pongono giusto un pelo al di là della media. Per il resto si tratta dell’ennesimo «ragazzino problematico» che nessuno sa come prendere.
La Bercot non riesce a penetrare oltre una certa soglia il malessere di Malony, o forse non vuole; anche se, a dispetto di un ruolo forte come quello assegnato al giovane Rod Paradot, il suo è un film corale, in cui a ciascuno viene concessa la propria fetta di Purgatorio in terra. C’è la giudice minorile interpretata da un’affascinante Catherine Deneuve, nella complicata posizione di dover letteralmente decidere del destino di decine di ragazzini; c’è la madre di Malony, giovane e con due figli a carico di cui non riesce ad occuparsi, sebbene li ami; c’è l’assistente di sostegno, con un passato analogo a quello del ragazzino che sta cercando di aiutare. Insomma, la sofferenza non è certo esclusività del giovane.
La Tête haute è pur sempre un coming of age peraltro, con dinamiche tipiche del genere, focalizzate perciò su un periodo preciso dell’esistenza di Malony, probabilmente quello decisivo per la sua formazione, mentre prova ad uscire dal guscio malgrado si tratti di un’impresa titanica. La Bercot ce lo mostra costantemente irrequieto, avvezzo alla violenza quale forma privilegiata per relazionarsi con l’altro. Una rabbia capace di esplodere con un’accelerazione disarmante, sebbene la regista stia sempre attenta a soffermarsi già sulle avvisaglie, quando in più occasioni vediamo Malony tentare strenuamente di contenersi prima che la sua foga trabocchi.
A tratti si ha addirittura l’impressione che il film sfoci, magari anche qui volontariamente, nello studio del suo protagonista: tutti quei dettagli su quelle mani chiuse a pugno, tremanti; il primo rapporto sessuale con Tess, quasi uno stupro se non fosse per l’atteggiamento della ragazza, che dopo il naturale sconcerto, rientra in sé e capisce che per uno come Malony una simile intimità non può che scatenare certe reazioni, violente sebbene non cattive: un passaggio, quest’ultimo, di una dolcezza disarmante, proprio perché al tempo stesso disturba. In fondo si tratta anche di questo, ovvero mostrare cosa c’è sotto a certi casi apparentemente disperati, ma che proprio per questo necessitano attenzione. Diversamente da disperati diventano impossibili, proprio perché a nessuno interessa.
Ed i tentativi di “riabilitazione”, chimera di certa psicologia moderna, non mancano: prima un centro di rieducazione, poi la galera, poi un altro centro ancora. Tra un posto e l’altro le corse continue presso il giudice, oramai una di famiglia, i continui scatti d’ira, la reiterata incapacità di dare un nome a questo “fastidio” che lo fa impazzire. Un tempo, probabilmente, lo si chiamava semplicemente maturare, quell’avvicinarsi all’età adulta che porta in dote sofferenza, perché è come un intero continente che si sposta da una zona all’altra del pianeta. E certo avrebbe perso qualcosa se La Tête haute si fosse concentrato solo sui momenti più eclatanti, anziché sottoporci anche e soprattutto a quelli semplici, molto ordinari, di un ragazzo con tendenze (auto)distruttive.
Sfidiamo però a non sobbalzare quando Malony lascia correre una scrivania direttamente sulla pancia di una donna incinta, rosso di rabbia e per questo impunito. Ma quello che più di tutto non viene “perdonato” al film di Emmanuelle Bercot e di aver proceduto controtendenza, mostrando un’altra versione, parimenti possibile e verosimile, di come certi drammi possano anche finire bene. O quantomeno meglio. Senz’altro il messaggio è positivo, verrebbe da dire addirittura “ottimista” pensando al nichilismo sfrenato di certe pellicole monocromatiche. Senza contare che Malony è uno, perciò mica sappiamo quanti altri come lui ce l’hanno fatta, ce la fanno e ce la faranno. D’altronde lo stesso futuro del nostro protagonista resta avvolto in quell’opportuno mistero che non sta a La Tête haute indagare; e se il dazio da pagare per un epilogo del genere è un’inquadratura finale che pecca di trionfalismo in eccesso, quasi quasi ci stiamo pure.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”][rating title=”Voto di Gabriele” value=”6″ layout=”left”]
La Tête haute (Francia, 2015) di Emmanuelle Bercot. Con Catherine Deneuve, Benoît Magimel, Sara Forestier, Rod Paradot, Ludovic Berthillot, Diane Rouxel e Aurore Broutin.