Il Richiamo della Foresta, la recensione: troppa CG per un cane che ha emozionato intere generazioni
Dopo Martin Eden con il nostro Luca Marinelli, un altro romanzo di Jack London torna in sala. Il Richiamo della Foresta.
Celebre la trama che ruota attorno al meraviglioso Buck, gigantesco cane dal cuore d’oro la cui tranquilla vita domestica viene sconvolta quando viene improvvisamente portato via dalla sua casa californiana, per essere trapiantato nella natura selvaggia dello Yukon canadese nel pieno della Corsa all’Oro di fine ‘800. Il viziatissimo Buck si ritrova così tra i ghiacci a capo di una squadra di cani da slitta, vivendo inaspettatamente l’avventura di una vita, trovando il suo vero posto nel mondo e diventando padrone di sè stesso, grazie soprattutto all’incontro con l’anziano John Thornton. Entrambi, l’uno accanto all’altro, sono anime perdute che casualmente si scovano in mezzo al nulla, portando a termine un percorso di crescita, di redenzione, di accettazione del proprio io, che da oltre un secolo conquista lettori e affascina spettatori, tra piccolo e grande schermo.
Una prima volta tra attori in carne e ossa particolarmente attesa, quella di Chris Sanders, vuoi o non vuoi finito in un live-action ‘ibrido’, perché in questo Il richiamo della foresta, non a caso costato quasi 110 milioni di dollari, spicca spaventosamente l’uso della CG. Il fotorealismo animale reso praticamente perfetto dal remake Disney de Il Re Leone torna qui prepotentemente in scena, ma con il peso di dover interagire con esseri umani, presenti sul set, e inevitabilmente costretti a smascherare l’arcano. Perché per quanto si parli anche in questo caso di tecniche di animazione all’avanguardia, l’inesistenza fisica di Buck è percepibile sin dalle primissime scene dal taglio volutamente adolescenziale, che vedono il cagnolone far letteralmente tremare casa al suo cospetto, con movimenti ed espressioni facciali che rimandano alla pura animazione. Se da un momento all’altro gli animali protagonisti iniziassero persino a parlare come in Dolittle, nessuno si stupirebbe più di tanto, per quanto sia eccessivamente marcato l’intervento digitale.
Appare onestamente complicato giudicare un film come The Call of the Wild senza tener conto dell’abuso di computer grafica, che coinvolge tutti gli animali presenti in scena e non pochi paesaggi. La sensazione di rappresentazione posticcia, per quanto accurata, non abbandona mai lo spettatore, obbligato ad interagire con quadrupedi che non esistono.
Gli attori reali, da Bradley Whitford a Omar Sy passando per il pazzo Dan Steven e l’anziano Harrison Ford, chiamato ad elaborare un lutto dolorosissimo, fanno di tutto per rendere credibile questo ibrido rapporto, ma la sensazione di irrealtà non fatica ad avere la meglio. Un solido e ingrigito Ford riesce a dare sostanza a questo Thornton, in fuga dal dolore familiare e da sè stesso, mentre Buck, in conflitto tra educazione di un tempo e incontaminata natura, tra affetto nei confronti del nuovo padrone e incontenibile slancio verso la libertà, prende forma unicamente grazie ai maghi dell’effettistica computerizzata.
Un contrasto troppo netto per poter passare in secondo piano, persino dinanzi alle emozioni che un film dalla così classica struttura impone. Scosse presenti anche in questo caso, ma inevitabilmente edulcorate da una scelta produttiva tanto ambiziosa quanto rischiosa, e onestamente rivedibile.
[rating title=”Voto di Federico” value=”5″ layout=”left”]
Il Richiamo della Foresta (Usa, dramma, 2020) di Chris Sanders; con Harrison Ford, Omar Sy, Dan Stevens, Karen Gillan, Bradley Whitford, Colin Woodell, Terry Notary, Alex Solowitz, Heather McPhaul, Paul Mabon – uscita giovedì 20 febbraio 2020.