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Fino a qui tutto bene: recensione in anteprima

Le ansie e i pensieri di cinque ragazzi alle prese con un futuro che mangia loro il presente. Fino a qui tutto bene è la storia di una parte di loro che con ci sta, senza troppi giri di parole e con un ottimismo non risolutorio ma almeno un po’ più “fresco” rispetto all’inflazionato grigiume generazionale

pubblicato 9 Marzo 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 17:33

Uno s’immagina che se un regista si mette a fare un film su un manipolo di universitari costretti oramai ad affacciarsi alla vita, ebbene, ci s’immagina che tale regista voglia alzare la voce. Farla fuori dal vaso, come si suole dire. Niente di tutto ciò in Fino a qui tutto bene. Parlare di film generazionale, nel senso di opera che segna una periodo con il suo descrivere una certa categoria, ecco, neanche questo è vero.

Il film di Roan Johnson ha un pregio su tutti: non ha pretese, pur avendo un’idea concreta di ciò che intende rappresentare. La generazione dei post-laureati, quelli dei call center, dei 400 euro al mese quando capita, dell’estenuante, infinita ricerca di un posto che non per forza anche solo si avvicini a ciò per cui uno ha studiato. Eppure di beghe occupazionali neanche l’ombra, se non qualche licenza incidentale.

Cinque ragazzi si apprestano a lasciare l’appartamento che hanno condiviso nel corso degli anni universitari. Non solo ricordi (e qui ci si affaccia a ciò che Fino a qui tutto bene intende veicolare) ma vera e propria “paura”. Non tanto di abbandonare la vita per certi aspetti “guidata” dello studente, col suo ciclo lezioni-studio-esami, fasi intervallate da caffè (tanto) e festini (dipende); ma di affrontarla da soli. Il film di Johnson, senza paternali né sentenze di sorta, quasi con tenerezza ci mostra questi quasi-trentenni o qualcosa di più come se in realtà avessero quindici anni in meno.

A qualcuno piacerebbe chiamarli bamboccioni (che, teoria vuole, di anni ne hanno quaranta almeno), ma il punto è che questi a casa coi genitori non ci vogliono stare ma al tempo stesso ci sono delle attenuanti. Abbassiamo subito l’asticella, giusto per non perdere di vista l’obiettivo: in Fino a qui tutto bene si parla di cinque amici prossimi alla separazione forzata. Amici che, è bene dirlo, si vogliono pure bene tra l’altro. O che al peggio si sono talmente abituati gli uni agli altri da aver finito con l’affezionarsi. Tanto. Dietro la copertina del film in versione home video potreste trovarci una descrizione di questo tipo e non andreste fuori strada.

Vincenzo, Paolo, Ilaria, Andrea e Francesca, ciascuno con i propri problemi, affrontano l’imminente distacco con non poca sofferenza. Ognuno di loro la manifesta e la vive a proprio modo, perché in fondo c’ha pure i propri affari a cui pensare; Ilaria, per esempio, è incinta di un padre che non ne vuole sapere di fare il padre: in un primo momento è facile identificarlo come un soggetto deprecabile tout court, fino a quando non si scopre che anche Ilaria non è esattamente una vittima, ed allora si parla di irresponsabilità, che non per forza vuol dire cattiveria.

Vincenzo c’ha provato col teatro, ma tutto ciò che ha raccolto è una ragazza che è scappata con un tizio più talentuoso ed è diventata famosa sfondando nelle serie TV. Andrea e Francesca sono a un punto critico della loro relazione, quando si rendono conto che le rispettive priorità non convergono ed allora la sola «voglia di stare insieme», fosse anche seriamente, non è abbastanza. Paolo, che sembra il meno incasinato, dà per lo più l’idea di aver interiorizzato il suo malessere, che può benissimo manifestarsi nel seppur goliardico amplesso con un’anguria; e poi per lui c’è una cotta che non verrà mai davvero fuori.

Persone ordinarie che affrontano questo passaggio esistenziale per ciò che è, senza però star lì a tergiversare sulla pesantezza di un periodo certamente uggioso ma non per questo “segnato”. Il regista afferma che l’aver lavorato in maniera davvero indipendente ha permesso loro di divertirsi, il che almeno in parte si nota: diversamente dovremmo concludere che abbiamo davanti dei fuoriclasse, spiegazione che, con tutto il rispetto per gli interpreti, ci convince meno della prima. Fino a qui tutto bene è il resoconto di questi ultimi giorni che precedono la consegna delle chiavi al proprietario, totalmente immerso nel presente, in cui i ricordi vengono rievocati (anche qui) con una simpatica leggerezza.

Sì perché, tra le altre cose, di tanto in tanto si ride, o per lo meno si sorride. Lasciamo stare i generi, perché il tono è per forza di cose agrodolce, tendente a sdrammatizzare situazioni in fin dei conti non facili, talvolta addirittura pesanti per l’appunto; alle quali si risponde con un pragmatismo che a tratti pure stona, sebbene non si possa dire sia del tutto irrealistico. Riesce il film nel tracciare delle linee comunque verosimili? Sommariamente sì, ma qui bisogna tornare al punto di partenza, quando abbiamo scritto che Fino a qui tutto bene non ha pretese. Nessuna, se non forse quella di divertirsi, e per forza di cose contagiare lo spettatore; quando serve ironizzando, senza però sfociare nel facile sarcasmo.

Alcuni (molti) fuori sede potrebbero riconoscersi, se non nei personaggi, nelle loro dinamiche, che in fin dei conti non sono poi così avulse dalla quotidianità di chi convive con altre persone per motivi di studio. Il tutto magari divertendosi, attraverso questa sorta di diario che cede da metà in poi, o comunque dal momento in cui gli autori si trovano costretti a tirare le fila di questa storia. Ma in fondo Fino a qui tutto bene soffre della medesima condizione che tenta di descrivere, dando l’impressione di non sapere come finire. Non lo sanno i suoi protagonisti, che alla fine, al netto di tutti i turbamenti del caso, decidono che non ne vale la pena di farsi tagliare le gambe da un futuro effettivamente ancora da scrivere; e non lo sanno coloro che il film l’hanno scritto, che perciò hanno ripiegato su una garbata descrizione di cosa oggi possa per noi significare l’amicizia, soffermandosi sugli amici e le loro storie, non su concenti astratti. Essere umili non vuol dire automaticamente fare centro; ma almeno qualcosina resta.

Voto di Antonio: 6

Fino a qui tutto bene (Italia, 2014) di Roan Johnson. Con Paolo Cioni, Paolo Giommarelli, Alessio Vassallo, Guglielmo Favilla, Silvia D’Amico, Melissa Anna Bartolini ed Isabella Ragonese. Nelle nostre sale da giovedì 19 marzo.

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