Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate: Recensione in Anteprima
E sono sei. Terzo capitolo de Lo Hobbit e sesto capitolo tolkeniano firmato Peter Jackson, arriva La battaglia delle cinque armate
11 anni fa, era il 2003, Peter Jackson chiudeva la trilogia de Il Signore degli Anelli con un capitolo entrato nella Storia del Cinema. Il ritorno del re. 11 Premi Oscar vinti come Ben-Hur e Titanic, 1,119,929,521 dollari d’incasso, scene mozzafiato ed effetti speciali dall’avanguardia per una conclusione capolavoro che fece entrare la saga nel guiness dei primati grazie alle diciassette statuette complessivamente portate a casa. Nessuno mai era arrivato a tanto. 10 anni dopo, una volta archiviati il sottovalutato King Kong ed Amabili Resti, il regista neozelandese ha accettato la sfida più folle di tutti. Tornare nella Terra di Mezzo e al suo unico padre, Tolkien, grazie a Lo Hobbit, prequel del Signore degli Anelli. Perduto Guillermo Del Toro, inizialmente incaricato dell’ardua impresa, Peter ha ceduto ai desideri dei fan e al fascino di un ritorno che solo lui poteva tramutare in immagini. A complicare terribilmente le cose lo studios, la Warner, che ha dichiaratamente chiesto incassi. Tanti incassi. Le 300 pagine scarse del romanzo fantasy di Tolkien, ovvero circa 1000 in meno rispetto a quelle del Signore degli Anelli, hanno così dovuto subire la ridicola suddisivisione in 3. Tre parti per 3 botteghini da urlo in 3 anni. 1 miliardo e 17 milioni di dollari incassati con il bambinesco Un viaggio inaspettato, uscito nel 2012, 958 quelli rastrellati lo scorso anno dall’adrenalinico La desolazione di Smaug. Con La battaglia delle cinque armate, 3° ed ultimo ‘episodio’, si punta evidentemente ad un altro miliardo tondo tondo, in modo da giustificare almeno dal punto di vista economico e produttivo un’operazione partita con tutte le migliori intenzioni del caso eppure conclusasi quasi rovinosamente.
Perché The Battle of the Five Armies è indubbiamente deludente. Terribilmente deludente. Il peggior capitolo dell’intera saga jacksoniana dedicata a Tolkien. L’ultimo viaggio nella Terra di Mezzo, tag line scelta per lanciare la pellicola, è stato anche il più ridondante e visivamente mediocre. Gli ormai famigerati 48 frame che il regista da 3 anni difende con le unghie e con i denti non hanno fatto altro che annientare lo stacco tra live action e CG, ampliando l’effetto di sfacciata finzione che nella prima trilogia mai si era percepito al buio di una sala.
Ma un anno fa dove eravamo rimasti? All’attacco del Drago Smaug a Pontelagolungo. Risvegliato da Bilbo, il mostro aveva scatenato tutta la sua furia incendiaria contro uomini e donne indifese. L’ultima scena del 2° capitolo ci mostrava lo sguardo impaurito di Martin Freeman, se ben ricorderete, sconsolato per aver ‘caricato’ la bestia. Ebbene il ‘prologo’ de La battaglia delle cinque armate inizia esattamente con il volo a planare di Smaug, tra torri di fuoco e frecce nere, con la Montagna finalmente liberata dalla sua ingombrante presenza. Ad approfittarne i nani di Erebor e soprattutto Thorin Scudodiquercia, accecato dal tesoro trovato all’interno e di fatto vittima della ‘malattia del Drago’. Il Re finisce così per rimangiarsi la parola data agli umani, sacrificando amicizia ed onore per trovare la leggendaria Arkengemma. Tutto questo con 5 armate pronte a contendersi l’oro e soprattutto la strategica posizione della Montagna. Non solo nani e umani ma anche elfi, animali ed orchi, ‘spediti’ direttamente da Sauron.
Poca carne al fuoco, soprattutto se condensata in 2 ore e mezza di pellicola, al termine di una trilogia che pallottoliere alla mano si è trascinata per quasi 8 ore. Un suicidio annunciato, tenendo conto dell’immancabile ed inevitabile paragone con la trilogia precedente, in realtà clamorosamente differente nei contenuti ma nel suo staff tecnico di fatto riproposta. Eppure il Jackson del 2003, quello firmato Ritorno del Re, ha davvero poco a che vedere con lo stile del Jackson del 2014. La battaglia delle cinque armate è infatti un film sbagliato sotto tanti punti di vista ‘tecnici’ e di scrittura. Visivamente parlando lo straniante effetto ‘green screen’ è praticamente onnipresente. Tutto o quasi è stato ricreato al computer, con tonnellate di CG riuscite persino a limitare le maestose scenografie naturali della Nuova Zelanda. Un’impresa. La voluta particolarità grafica di 300 viene qui troppo spesso involontariamente riproposta, con rallenty improponibili e a lungo ribaditi e scelte di regia e di scrittura che inspiegabilmente scivolano nel kitsch estremo.
Il senso del ridicolo prende il sopravvento in un paio di scene che strappano sorrisi tutt’altro che cercati. Basti pensare all’uscita trionfante dalla Montagna di un Thorin Scudodiquercia finalmente ‘guarito’ dalla malattia del drago, con sole rosso fuoco alle sue spalle e rallentatore prolungato. Una parodia. I lunghi momenti di battaglia, poi, precipitano continuamente nell’imperfezione quando gli attori in primo piano si ritrovano a dove interagire con scenografie vistosamente e abbondantemente ricreate al computer. L’influenza dei 48 frame, sotto questo punto di vista, è tutt’altro che positiva. La flebile interazione tra i tanti personaggi, suddivisi in più piani narrativi in modo da animare un minimo la poco eccitante azione, è inoltre un ulteriore anello debole, con alcuni di questi che scivolano lentamente nella quasi totale inutilità. Basti pensare alla Tauriel di Evangeline Lilly, allo sporco, subdolo e fifone Alfrid di Ryan Gage e al terribile Legolas di Orlando Bloom, non solo graficamente modificato in volto ma nel finale quasi videoludico nel compiere azioni tra l’assurdo e il comico. Vero è che è sempre stato eccessivo e ‘coatto’, ma a tutto c’è un limite. Male, molto male anche i ritorni di Cate Blanchett e Christopher Lee, ritrovatisi in un’unica azione di ‘salvataggio’ nei confronti di Gandalf ancora una volta sfacciatamente mediocre nella sua messa in scena. Anche se capitolo più breve dei 6 diretti dal regista neozelandese nella Terra di Mezzo, i 144 minuti de La battaglia delle cinque armate si sentono abbondantemente tutti, perché sbrodolati all’inverosimile nel dover motivare una trilogia che fino a 3 anni fa era stata pensata ed annunciata come un doppio episodio. Come tale doveva rimanere.
Se l’epocale battaglia finale per la conquista della Montagna si trascina per oltre un’ora, tra tramonti infiniti, momenti ‘alla Zack Snyder’ da far tremare i polsi e una fotografia che imbocca inspiegabilmente la strada della lucentezza assoluta, quasi accecante, Lo Hobbit 3 riprende fiato e un minimo di senso nell’ultima mezz’ora, quella degli addii, del ‘cuore’ jacskoniano che finalmente prende quota e del congedo che fa da anello di congiunzione con il primo capitolo del 2001, distante più o meno 110 anni ‘tolkeniani’. Poco, troppo poco per una terza parte che avrebbe dovuto in qualche modo far ‘decollare’ l’inspiegabile trilogia de Lo Hobbit, di fatto rovinata da ingordi produttori che troppo hanno voluto spremere da un romanzetto di 300 pagine e da un regista incaponitosi nel cavalcare una ‘rivoluzione tecnologica’ che mal si sposa al cinema fantasy, genere proprio da lui portato sul tetto del mondo appena 11 anni fa. Nella speranza che a nessuno, in quel di Hollywood e per i secoli a venire, venga più l’idea di riportare in vita la ‘Terra di Mezzo’.
Voto di Federico: 5
Voto di Antonio: 4
Voto di Gabriele: 4
Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate (Usa, 2014, fantasy, The Hobbit: The Battle of Five Armies) di Peter Jackson; con enedict Cumberbatch, Luke Evans, Elijah Wood, Martin Freeman, Cate Blanchett, Evangeline Lilly, Hugo Weaving, Ian McKellen, Richard Armitage, Andy Serkis, Christopher Lee, Lee Pace, Billy Connolly, Ian Holm, Stephen Fry, William Kircher, Mikael Persbrandt, James Nesbitt, Aidan Turner, Graham McTavish – uscita mercoledì 17 dicembre 2014.