Lando Buzzanca: ritratto di un attore che aiuta a capire perché il nostro cinema non fa più ridere
Abbiamo avuto attori fantastici nel comico, che potevano fare tutto (da Totò a Sordi, da Tognazzi a Gassman, e molti altri); i nuovi non riescono a eguagliarli
Ho preso parte a una trasmissione tv dedicata a Lando Buzzanca inserito in una serie di personaggi del Novecento. Non mi sono stupito di fronte alla proposta, anzi l’idea che avessero pensato di inserirlo nella serie (anche se cosparsa di altre sorprese simili) mi ha posto qualche problema, perché Lando?, mentre pensavo veloce alla risposta alla proposta. Conosco Lando e ho seguito negli anni quello che ha fatto. L’ho incontrato e l’ho trovato simpatico nonostante il narcisismo abbondante, mai nascosto, che adopera per tenere a bada una timidezza di fondo che si avverte.
Ho detto di sì e poi sono andato a consultare filmografia, fiction e varietà, teatro e persino radio. Tante cose. Un numero abbastanza impressionante, una quantità che non s’intreccia con la qualità, poiché il gradassone siciliano Lando ha fatto tutto e di tutto, rispondendo a un a vocazione coltivata in famiglia, gente dello spettacolo. Ho letto e sorvolato sulle cose inutili. Ma adesso che ne scrivo, mi domando di riga in riga: che diritto ha un osservatore come me, che non pretende di essere un giudice né tanto meno uno dei tanti settari presente nel circo della cultura, di giudicarlo sulla lavagna come buono o come cattivo?
Ho sempre considerato Lando un entusiasta irrefrenabile, un pazzo adrenalitico senza ritegno, un tipo da incontenibile carica erotica, forse la sua vera risorsa insieme all’amore per l’esibizionismo attoriale e più ancora, sempre e comunque. Non sono difetti. Al contrario. Nelle parti nei film di Pietro Germi , “Divorzio all’italiana” o “Sedotta e abbandonata”; di Elio Petri, “I giorni contati”; di Antonio Pietrangeli, “La parmigiana” ha fatto parti ben segnate, comiche o brillanti, segno di talento, di un talento capace di improvvisare e di rifarsi al nostro varietà, alle farse, alla rivista, ai film spettacolo mai dozzinali di decine di comici, i “non eroi” del set e della scena.
Lando ha avuto dentro un sacro fuoco, senza vergogna, una propensione per i ruoli di scimunito o di idiota forrest camp della provincia siciliana, lo smarrito di ragione e idee che si dona alla Capitale per partecipare ai ludi del ridicolo nazionale. Pronto a tutto. Raccontare, presentarsi, mettersi a servizio. Di tutto. Dal grottesco della politica alla caciarona vita ordinaria romana; dalla mania di copiare dai successi stranieri e rifarli (ha interpretato anche un “James Tont”) al western spaghetti (Ringo e Gringo contro tutti); dalle cazzate (“Puro siccome un angelo papà mi fece monaco di Monza” o “Il vichingo venuto dal sud”) alle super cazzate (“Dracula in Brianza”), e così via.
Ripugnanti? Beh, sì. Io non li ho visti, non era roba per me. Ma Lando accettava le proposte senza neanche discuterle. Amor di soldi? Esatto. Come tutti gli attori italiani che prendevano quel che trovavano. Specie negli anni Settanta quando il cinema italiano chiuse con i fervori e il glamour della dolce vita, e si buttò dove poteva per raccattar biglietti del pubblico sempre più conquistato da una noiosa tv.
Detto questo, il siculo Buzzanca anelava, voleva soprattutto diventare popolare come i “colleghi” Alberto Sordi, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi…e dei grandi come Totò, Peppino, comici senza eredi. Voleva mescolare le carte. Fare come ha fatto “Don Giovanni in Sicilia” di Alberto Lattuada, tratto dal romanzo di Vitaliano Brancati; o “Il merlo maschio”, un successone, non privo di mordente sul piano del costume, ispirato a un libro di Luciano Bianciardi, una penna non qualunque. Li fece e fece anche altre commedie, ad esempio “Homo eroticus” di Marco Vicario, in un’Italia affascinata dal sesso, nel periodo della contestazione che si avviava al terrorismo. Una cupa voglia di dimenticare, in nome di una satira evanescente.
Lando non lavorò con Alvaro Vitali e in film della serie docce e peti. Lo salvarono il senso della tradizione; ovvero, il rifarsi alle farse della scena, dell’avanspettacolo scanzonato ma non volgare; e una lunga serie di partecipazioni allo show della tv, in un’orgia spasmodica di mimica e di gags clamorosamente finalizzate alla risata clownesca. Si salvò dalla decadenza e cominciò a mettere le basi per interpretazioni anche “impegnate” in “Mio figlio” (la scoperta di un padre della omosessualità del ragazzo) e nel “Vicerè”, e da ultimo in “Restauratore”. Professionismo rodato, un senso di malinconia, il ricordo di risate senza freni, nostalgie di ubriacature amorose, depressione. Insomma, autore che non prende in giro e pesca nei suoi sinceri umori per le scene, senza finzioni, nel vivere nella finzione, sempre. Ricordo, infine, la scena di “Divorzio all’italiana”, in cui nel piccolo paese siciliano viene proiettato l’attesissimo, scandaloso “La dolce vita”. Lando è in un palco com la fidanzatina né bella né brutta, mentre sullo schermo passa una Anita Ekberg bella, alta, i piedi scalzi, il seno traboccante. Lando guarda con i suoi cento occhi arrapati Anita. La fidanzatina gli lancia un’occhiata gelosa, addolorata, impotente. Lando risponde con questa frase imbarazzata: “Un mammifero di lusso, ma senz’anima”. Anno 1961. Memorabile.