Wild: recensione in anteprima del film di chiusura di Torino 2014
Torino Film Festival 2014: un flusso di coscienza fatto di ricordi, schegge dolorose, frasi e suoni si unisce ai km percorsi da Cheryl Strayed nel Pacific Crest Trail nel nuovo film di Jean-Marc Vallée, Wild. Che con tutti i luoghi comuni del caso riesce a salvarsi grazie al montaggio emotivo.
Calze sporche di sangue, lividi sulle gambe, e l’unghia del pollice distrutta da strappare via. Comincia così Wild, e pare ci dica che non sarà di certo un percorso leggero per la protagonista Cheryl Strayed, avventuratasi nel Pacific Crest Trail, il sentiero che va dal confine con il Messico a quello con il Canada.
“Puoi mollare quando vuoi, ricordatelo”, le aveva detto un’amica nel momento in cui la ragazza decise di partire. Quella frase le ritorna in meno di continuo, perché la possibilità di mollare tutto è lì, facile e a portata di mano. Nessuno le darà della perdente, perché Cheryl non vuole dimostrare nulla a nessuno, forse manco a sé stessa. Deve solo andare, perché il passato recente l’ha segnata e non c’è altro modo per disintossicarsene.
La storia di Cheryl Strayed è un concentrato di luoghi comuni. Nessuna offesa: sono cose che nella vita succedono, ma che è difficile rendere sul grande schermo senza concessioni al patetismo o alla retorica. Devo ammettere che mi spaventava parecchio il fatto che alla regia ci fosse Jean-Marc Vallée, che credo non faccia un film davvero interessante dal 2005, anno di C.R.A.Z.Y..
Idolatrato da critica e pubblico, soprattutto grazie a Dallas Buyers Club, Vallée è invece per chi scrive una promessa non mantenuta. Café de Flore s’inceppava nel suo stesso meccanismo narrativo, mentre il suo già citato ultimo lavoro mi pare soprattutto un veicolo per i premi che contano per i due attori protagonisti, senza troppo di nuovo da raccontare.
Il timore era che Vallée si sarebbe approcciato alla storia di Cheryl nel modo più hollywoodiano possibile, azzerandosi completamente e mettendosi al servizio di una sceneggiatura che avrebbe fatto dei luoghi comuni il suo punto di forza. Cheryl infatti ha un passato piuttosto turbolento, in cui si incastrano e si danno vita l’un l’altro molti problemi che l’hanno segnata nel profondo.
Tutto comincia con il rapporto con la madre, Bobbi (Laura Dern), che ha praticamente cresciuto da sola la ragazza e, durante il liceo, ha frequentato la sua stessa scuola per recuperare gli anni di studi che non ha mai avuto la possibilità di frequentare. C’è poi la storia d’amore con Paul, durata 7 anni e finita con un tatuaggio in comune fatto da entrambi lo stesso giorno del divorzio, per segnare sui propri corpi quel periodo che comunque è stato indimenticabile.
Da lì il passo è breve, ed entrano in scena elaborazione del lutto, tossicodipendenza, sesso compulsivo. Raccontato così effettivamente Wild fa orrore, perché sembra davvero che il fine di Vallée nel raccontare questa “parabola” voglia andare a parare su lidi non solo già visti e stravisti, ma persino moralisti. Quello che però fa la differenza è il montaggio “emotivo”, che raggiunge a tratti momenti sinceramente toccanti.
Perché Wild altro non è in fondo che la messa in scena di un flusso di coscienza di una persona che ad un certo punto della vita si ritrova in stallo, incapace di andare avanti, spaventata da sé stessa e da tutto il mondo lì fuori. Già tutto detto (da Into the Wild fino a persino Tracks)? Vero. Ma è l’approccio stesso del regista che questo giro fa la differenza e mi sembra tenere in piedi il progetto, e mica è cosa da poco.
Non è che poi il film non abbia ricevuto delle critiche, però francamente mi sento di difendere Wild: perché trovo che l’approccio del regista sia quello giusto. Vallée racconta un viaggio sia fisico che mentale in una natura che è sì affascinante e bella, ma soprattutto faticosa. Wild è scandito dal passare dei giorni e dei km percorsi da Cheryl, e proprio il “Giorno 1” la ragazza dice fra sé e sé, dopo aver camminato per neanche un minuto, “Chi cazzo me l’ha fatto fare?”.
Segue un momento piuttosto divertente (uno fra molti: il film è anche pervaso da uno humour irresistibile) in un motel in cui la ragazza deve inventarsi un modo pratico per mettersi sulla schiena il suo enorme e pesantissimo zaino, che porterà addosso per ore e ore di camminata. Va quasi da sé che il “Giorno 36”, ad esempio, sia un “Day Fucking 36”. In questo tessuto canonico da road movie affrontato a piedi, in cui la ragazza incontra ovviamente diversa gente che sta percorrendo come lei il PCT, si inseriscono i suoi ricordi.
Mi pare che tutto si possa dire a Vallée tranne di aver giocato sporco. Se la materia è quella che è, lui ha provato a darne un senso attraverso un montaggio che veramente fa il film. Schegge di memoria, suoni e frasi e canzoni che ritornano (attenzione alla OST, strepitosa tra Simon & Garfunkel e Bruce Springsteen), flashback e via dicendo. Ci sono la fatica e il dolore fisico del viaggio, ma c’è anche la fatica e il dolore mentale del ricordo. Tutto ciò per descrivere a 360° un personaggio femminile con il quale lo spettatore è davvero chiamato a viaggiare assieme.
Il film cade e si rialza continuamente con Cheryl (a cui Reese Witherspoon regala forse davvero la sua migliore interpretazione), donna resa fragile dalle circostanze della vita e decisa a prendersi una svolta. Quale ancora non lo sa, ma dopotutto è il viaggio che conta. E se il viaggio serve a farti capire che le scelte che hai fatto in passato, discutibili quanto si vuole (ancora oggi Cheryl si dà al sesso occasionale, e fortunatamente non se ne pente!), allora vuol dire che non si è buttato via proprio nulla della propria vita. Nonostante tutto il dolore provato.
Voto di Gabriele: 7
Wild (Usa 2014, biopic / drammatico 115′) di Jean-Marc Vallée; con Reese Witherspoon, Michiel Huisman, Gaby Hoffmann, Laura Dern, Thomas Sadoski, Kevin Rankin. Uscita in sala il 19 febbraio 2015.