Ritorno a L’Avana (Retour a? Ithaque): con Laurent Cantet tra speranze e disillusioni
Ritorno a L’Avana con cinque amici, dal tramonto all’alba, dalle speranze di ieri alle disillusioni di oggi.
Dopo 7 days in Havana, Laurent Cantet torna a Cuba con aspettative, speranze, ferite e frustrazioni della generazione nata con la rivoluzione e allevata con il sudore e le lacrime degli ideali collettivi.
Ritorno a L’Avana (Retour à Ithaque) con cinque amici sulla cinquantina (Jorge Perugorria, Pedro Julio Diaz Ferran, Isabel Santos, Fernando Hechavarría, Néstor Jiménez) che si ritrovano su una terrazza che abbraccia con lo sguardo i tetti de L’Avana e l’orizzonte delle loro esistenze, per festeggiare il ritorno di quello rientrato sull’isola dopo 16 anni di esilio a Madrid, e concedersi un amarcord dolce-amaro tra balli, foto, bevute e sogni di ieri destinati a scontrarsi con la realtà cubana di oggi.
Un viaggio dal tramonto all’alba, dalle speranze di ieri alle disillusioni di oggi, per il film diretto dal Cantet Palma d’oro al Festival di Cannes 2008 con La Classe, scritto con il romanziere cubano Leonardo Padura, prodotto da Maneki Films, Borsalino Productions, Orange Studio e Panache Productions, che dopo essere stato presentato e premiato nella sezione Giornate degli Autori al 71° Festival del Cinema di Venezia, arriva al cinema distribuito da Lucky Red, dal prossimo 30 ottobre.
Una generazione nell’Uragano della storia
“Quando Laurent Cantet mi ha chiesto di partecipare a questa avventura cinematografica, sapevo che sarebbe stata per me un’ulteriore occasione per drammatizzare il tema che più caratterizza il mio lavoro: il posto che occupa la mia generazione nella recente storia cubana e le vicissitudini che hanno influenzato il destino individuale e collettivo di quei giovani. Sia nei romanzi che parlano di altre zone geografiche e di
altri periodi storici, sia in quelli che sono centrati sulla vita cubana contemporanea, l’espressione dei conflitti morali e materiali della mia generazione ha sempre occupato un posto speciale.
Partendo dall’incontro di questi cinque amici in un giorno della Cuba di oggi (quando i personaggi sono sulla cinquantina), abbiamo provato a raccontare le aspettative, le speranze, le frustrazioni, i sogni e le ferite di una generazione unica nella storia cubana. Una generazione nata con la Rivoluzione, formata ed educata in
un nuovo contesto politico e sociale del paese che, approdata nella crisi degli anni ’90, oltre ad aver capito l’irrealizzabilità delle speranze e degli ideali collettivi con cui era cresciuta, ha dovuto lottare quotidianamente e disperatamente per la propria sopravvivenza e per quella dei suoi figli.
Attraverso le rivelazioni suscitate dal ritorno a Cuba di uno dei protagonisti, abbiamo cercato di costruire una rappresentazione realistica di quegli uomini e donne che, in gioventù, erano militanti attivi nello zeitgeist sociale del paese e che, come molti altri, sognavano che il frutto dei loro sacrifici, sarebbe stato raccolto in futuro. Ma la crisi economica della nazione, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ha causato il
crollo delle speranze e i sogni di coloro che fino ad allora avevano creduto, studiato e lavorato per realizzarli.
Dal dramma determinato dall’esilio, con le conseguenti crisi interpersonali, alla lotta per la sopravvivenza economica, dal “camuffamento” come stile di vita, alla perdita della lealtà nazionale, dalla sconfitta spirituale, alla lotta contro tutte le paure… questi sono alcuni degli ingredienti che hanno segnato questa generazione. Una generazione che ha sognato un futuro migliore per tutti e che si è sacrificata per quel
sogno. Attraverso Amadeo, Rafa, Tania, Aldo e le esperienze di Eddy, il film tenta di trovare il sangue, il
sudore e le lacrime di una esperienza collettiva che è stata unica.
Quindi Ritorno a L’Avana è la storia di alcune vite attraverso le quali si racconta la storia della mia generazione. Certamente non è l’unico ritratto possibile, ma è senza dubbio il riflesso delle tante incertezze, speranze, successi e frustrazioni, crudelmente gettati in mare aperto dai venti della storia.
Questa è una possibile storia della Cuba di oggi. Potrebbero esistere altri punti di vista, anzi, esistono; ma, come registi di questo film, attraverso questa storia, abbiamo cercato di aprire gli occhi e la mente sulla tragica realtà di oggi a Cuba, dove è facile trovare molte storie di vita simili a quelle di Amadeo, Tania, Rafa, Aldo e Eddy.”
Leonardo Padura, Luglio 2014
Intervista a Larent Cantet
Quando è nata l’idea di collaborare con Leonardo Padura?
Qualche anno fa, quando sono stato coinvolto nella realizzazione del film collettivo Sette giorni a L’Avana e Padura supervisionava le sceneggiature.
In quell’occasione gli suggerii di riflettere sulla scrittura a quattro mani di un cortometraggio, partendo dal personaggio del suo romanzo Le Palmiere et L’Étoile, che ritorna a L’Avana dopo anni di esilio, ritrovando lì i suoi vecchi amici.
Lo raggiunsi a Cuba per lavorare insieme. Lui scriveva qualche pagina di notte e io le riprendevo durante il giorno. Parlavamo in un miscuglio di spagnolo, francese e inglese. Fu un po’ caotico ma, conoscendo i suoi libri, funzionò.
Alla fine della settimana siamo arrivati alla conclusione che quindici minuti di cortometraggio non sarebbero stati sufficienti. Gli chiesi di sospendere provvisoriamente il progetto e mi misi a scrivere da solo una sceneggiatura più adatta alla richiesta.
Appena ho terminato Foxfire – Ragazze cattive, il mio precedente film, ho ricontattato Padura e ci siamo rimessi a lavoro. È venuto a Parigi per una decina di giorni, durante i quali il film ha iniziato a prendere forma e poi lui è rientrato a Cuba, dove ha scritto una prima versione. Abbiamo comunque continuato a lavorare a distanza fino alla redazione di una prima sceneggiatura presentabile.
Quanto deve questa sceneggiatura all’opera letteraria di Padura?
Il film è un concentrato di temi che Padura tratta di romanzo in romanzo. La difficoltà di esserci e l’impossibilità di essere altrove. L’incapacità di credere ancora e la stanchezza che prende il sopravvento.
Tutti i suoi libri parlano di questa generazione perduta, la sua, quella nata tra il 1955 e il 1966 all’inizio della rivoluzione, che ha studiato con l’idea di poter partecipare effettivamente ad un’utopia in divenire ma che, nel momento in cui si è scontrata con le responsabilità, è stata colpita dalla fine del sostegno sovietico e dal periodo di crisi che ne è seguito. È quella generazione che ha vissuto in pieno il “periodo speciale” decretato da Fidel Castro a partire dal 1992: una decina di anni durante i quali ognuno ha conosciuto la fame e terribili privazioni, una vera e propria economia di guerra in tempo di pace, un inasprimento politico voluto per contenere l’emergere di frustrazioni e malumori. Per molti di loro il sogno si è interrotto in quel momento, insieme al dolore di dover mettere una croce su gran parte della loro vita. Altri hanno tentato di adottare una posizione critica, ma allora fu interpretata come tradimento. Altri ancora son partiti e vivono in esilio, in Spagna o negli Stati Uniti, il paese “nemico”.
Come ha costruito i personaggi?
Al termine dei primi provini credevo di aver trovato Tania e Rafa ma gli altri dovevano ancora essere delineati. Tenevo molto al personaggio del piccolo dirigente corrotto, Eddy, che pensavo fosse il più patetico del film, perché lui stesso si detesta per essersi lasciato corrompere: nella mia testa, sarebbe stato il personaggio più fastidioso del gruppo, ma al tempo stesso quello che più si fa voler bene.
Volevo inoltre che ci fosse la diversità fisica e di colore della pelle che caratterizza Cuba: Aldo, sua madre e suo figlio, i neri del film, suggeriscono l’immagine di un’altra classe, di un altro modo di essere e forse anche di un altro linguaggio. Sebbene la maggior parte dei cubani lo neghi, anche la loro società è ostacolata da separazioni economiche, culturali e razziali.
Chi sono gli attori del film?
La maggior parte di loro è molto conosciuta a Cuba. Jorge Perugorrìa, detto anche “Pichi” (Eddy), è la star del cinema cubano – era uno dei protagonisti di Fragole e cioccolato. Isabelle Santos (Tania) e Néstor Jiménez (Amadeo) sono due attori di spicco, che troviamo nei più importanti film cubani degli ultimi decenni. Quanto a Fernando Hechevarria (Rafa), è un grande attore di teatro. Soltanto Pedro Julio Dìaz Ferràn (Aldo), che lavora in una compagnia di teatro per ragazzi, non è conosciuto dal grande pubblico.
All’inizio, era un po’ intimorito dal recitare al fianco dei suoi mostri sacri – ma questo mi piaceva perché la sua timidezza ha finito per rafforzare la differenza che lui incarna. Aldo non è dello stesso ambiente, non ha le stesse preoccupazioni, ma riesce ad adattarsi a questo gruppo di amici. Gli altri si conoscono da tempo: Amadeo, Tania, Rafa hanno studiato insieme e sono rimasti molto legati. Questo gruppo in qualche modo esisteva già prima della sceneggiatura.
Come hanno reagito gli attori al fatto che lei non fosse cubano?
Andrebbe chiesto a loro. Ma spesso mi hanno detto che un cubano non avrebbe mai potuto fare questo film. Prima di tutto perché non avrebbe avuto l’autorizzazione e avrebbe trovato difficoltà per ottenere i finanziamenti. Ma anche perché la mia presenza nell’“anello di ferro”, quella di uno straniero, era indispensabile per far emergere cose che, tra cubani, si sanno e non si sente il bisogno di esplicitare. Questo tipo di distacco è molto importante per me. È un sentimento che provo tutte le volte che giro: una sorta di estraneità geografica, sociale o culturale mi dona un’intensità diversa da quella che potrei avere quando sono immerso in una situazione, totalmente concentrato su ciò che filmo.
La libertà delle loro parole è collegata alla minore rigidità del regime?
Secondo Padura, il film è stato fatto nel momento in cui è stato possibile farlo. Perché siamo usciti dal “periodo speciale” e si è aperta un’epoca di maggiore libertà di parola e di pensiero. Abbiamo quindi ottenuto tutte le autorizzazioni ufficiali sulla base di una sceneggiatura che non ha avuto bisogno di essere edulcorata e anche i tecnici de l’ICAIC (Istituto Cubano delle Arti e dell’Industria Cinematografica) hanno lavorato sul set.
Questa apertura è associata al bisogno che hanno i cubani di raccontarsi. Dal momento in cui abbiamo iniziato a parlare del film, gli attori non avevano che un’idea: il film esiste! Per loro era di fondamentale importanza che questo spazio di catarsi avesse luogo: che si potessero dire finalmente delle cose, che il cinema le avrebbe riflesse e trasmesse.
Parlerebbe di Ritorno a L’Avana come di un film su una “depressione collettiva”?
È piuttosto un film sulla rabbia. Tutti i personaggi hanno l’impressione di essere stati derubati della loro vita e forse anche loro hanno contribuito a farsela portare via, in un modo o nell’altro: che siano stati traditi o che si siano traditi. Negli anni ’70, avevano la sensazione di essere al centro di un cambiamento: stavano costruendo qualcosa che avrebbe potuto funzionare. Quando nel film si parla di questo, Rafa ironizza: “abbiamo scritto la storia, eravamo il fiore all’occhiello del mondo…”. Anche per i più critici di loro, quegli anni sono stati animati da un’energia e un senso di fiducia reciproca che gli ha permesso di superare anche i momenti più duri. Ed è proprio questa fiducia che un personaggio come Aldo cerca di tenere viva nonostante tutto, perché è nero e sa, che senza rivoluzione, avrebbe pulito le scarpe dei turisti americani. Mi emoziona profondamente quando dice: “Lasciatemi credere di crederci ancora…”. Gli altri non condividono questo punto di vista, loro provano solo rabbia.
Quindi qual è il motivo dell’astio nei confronti di Amadeo? Gli rimproverano il fatto di essersene andato o piuttosto di non essere partiti anche loro?
Lui rimpiange di averli abbandonati e di non essere tornato quando la sua compagna si è ammalata e poi è morta. Ma ho l’impressione che loro gli rimproverino soprattutto il fatto di essere partito senza rendersi conto di aver fatto bene a farlo. Secondo loro Amadeo ha sputato nel piatto in cui mangiava quando avrebbe potuto vivere e sperimentare qualcosa di diverso. Quando racconta, come fanno tanti immigrati, che in Spagna ha smesso di avere un’identità cubana, loro gli rispondono che di fatti non era più cubano e che la loro esperienza non poteva essere condivisa con qualcuno che non l’ha conosciuta.
Tuttavia, l’idea di una partenza è tuttora problematica. Questo è particolarmente evidente con Yoenis, il figlio di Aldo…
Yoenis è anche lui rappresentante a tutti gli effetti di una generazione. A Cuba l’esilio da molto tempo è un fatto culturale. C’è stata la colonizzazione che ha visto gente arrivare e partire; successivamente ci sono state dittature che hanno provocato delle partenze di massa; c’è stata una rivoluzione, a sua volta è stata caratterizzata da diverse ondate di esilio. Ciascun cubano ha, da qualche parte nel mondo, uno zio, un nonno, una sorella, che talvolta invia del denaro e che incarna il fantasma di una felicità che risiede altrove.
Ma ancora di più sono i giovani che sentono questa fatica in maniera più pesante di chi li ha preceduti. I loro genitori hanno creduto nella rivoluzione, hanno vissuto l’entusiasmo di cui conservano ancora memoria; sperano ancora che la situazione trovi chiarezza. Ma il tempo passa e la situazione evolve così lentamente che molte persone (meno nelle classi urbane e colte) non credono più che la rimozione dell’embargo americano possa migliorare la loro sorte.
I giovani cubani non hanno né un passato glorioso da rievocare, né possono immaginarsi un futuro. Per questo molti di loro sognano di cercare fortuna all’estero, anche negli Stati Uniti. Oggi è certamente più facile andar via. Dice Rafa: «non c’è bisogno di attraversare un mare in tempesta e affrontare onde e squali.
C’è semmai bisogno di soldi e di una carta di credito del paese in cui si è diretti!». C’è quindi possibilità di partire ma è comunque una possibilità riservata a una minoranza.
Il film dà l’impressione che non ci sia via di uscita: né di andare, né di restare, né di rientrare…
Prima di tutto dovremmo domandarci se questo sentimento lo proviamo tutti, a prescindere dal luogo in cui viviamo. Poi il film propone una via: uscire dalla paura. Amadeo racconta che la paura gli ha impedito di scrivere, gli ha impedito di tornare quando la sua compagna stava morendo, ha impedito a Rafa di dipingere. La loro vita è stata vincolata dalla paura che ha leso tutti i loro piani: la loro quotidianità, le loro relazioni, la loro creatività, gli amori. Credo che questa paura stia svanendo, come è svanita per Amadeo permettendogli adesso di tornare a Cuba.
Ritorno a L’Avana è senza dubbio il suo film più teatrale: molti dialoghi, una drammaturgia classica, unità di tempo e luogo… Questa scelta si è imposta da subito?
Era una necessità per il progetto del cortometraggio, ma ho deciso di conservarlo anche per il lungo. Padura inizialmente ha fatto un po’ di resistenza, avrebbe amato che il film si sviluppasse in più giorni e in più luoghi. Personalmente, volevo evitare le ricostruzioni e i flashback e credevo che il registro poi utilizzato fosse il solo modo per affrontare tutto quello che avevamo da raccontare. Ma soprattutto, credevo fermamente che non si potesse parlare di Cuba se non dando la parola ai cubani, in modo da offrirgli la possibilità di raccontarsi. Da qui l’importanza della stretta collaborazione con Padura.
È anche il suo film più diretto: quello in cui l’emozione è maggiormente esplicitata…
Generalmente sono piuttosto pudico: mi piace lavorare sul sottinteso. Questa volta mi sono sentito autorizzato a filmare le lacrime e gli scoppi d’ira. La scrittura di Padura mi ha invitato a farlo, gli attori mi hanno incoraggiato. Il film credo trasmetta quell’emozione che provo ogni volta che sento i cubani raccontare la loro storia.
Non ha esitato a trasmettere degli insegnamenti sulla storia cubana…
Poche persone al mondo conoscono davvero la storia di Cuba e mi è sembrato importante ricordare alcuni avvenimenti, ma credo che queste lezioni non vadano a scapito dell’emozione. Abbiamo sempre voluto che i due livelli di lettura (storia cubana – storia generale) coesistessero dentro il film e si alimentassero a vicenda. Credo che ciascuno di noi possa ritrovare una parte di sé dentro queste storie: le speranze, le delusioni, le domande sul futuro del mondo in cui viviamo.
Allo stesso tempo, la teatralità, nella sua finzione, è controbilanciata da una certa naturalezza, sia nella scrittura che nella messa in scena…
Sì, abbiamo voluto controbilanciare la teatralità con un linguaggio semplice, il meno letterario possibile.
Padura ha il dono di saper descrivere i cubani di strada, di restituire il ritmo che li contraddistingue. Ho quindi girato con due camere, come avevo fatto per La classe, con cui avevo già cercato di rompere il quadro costrittivo di un unico ambiente. In questo modo il registro cinematografico è concepito per essere interamente al servizio degli attori, per lasciare loro il più possibile carta bianca. Questo permette di lasciare che le cose accadano, di filmare al tempo stesso campo e controcampo, di permettere sovrapposizioni al fine di cogliere un dialogo vivo e vero.
Percepiamo anche un’apertura sulla città: i rumori di una partita di baseball, l’uccisione di un maiale, una lite coniugale…
L’idea era quella di accogliere la vita della città sulla terrazza piuttosto che andarla a cercare. A L’Avana tutto sembra vicino, i rumori sono invadenti, si vive in un mondo comunitario. Abbiamo a lungo cercato la terrazza sulla quale abbiamo girato il film, salendo un numero incalcolabile di piani. Ne volevo una sul lungomare Malecòn, perché mi sarebbe piaciuta una doppia apertura: da un lato il mare, dall’altro i tetti della città. Avevo in testa una terrazza che fosse un po’ come una zattera. Il problema è che il Malecòn è il posto più rumoroso de L’Avana! In più un altro vincolo era costituito dai muri che si innalzano sulla maggior parte dei tetti, impedendo di vedere al di là quando le persone sono sedute. Poi abbiamo trovato la terrazza, qui i corrimano di filo permettevano uno sguardo aperto. Si trova al centro de L’Avana, in uno dei quartieri più poveri della città. Il primo giorno di riprese, c’è stata una tempesta tropicale che ha allagato le strade e distrutto alcune case…
Il suo precedente film era anglo-americano, questo ispano-cubano. Cosa le interessa del girare in una lingua straniera?
Il punto non è proprio questo… La lingua è imposta dalla storia che voglio raccontare. Parlo un po’ di spagnolo, l’ho appreso facendo corsi intensivi. Per sei mesi non ho parlato altro che spagnolo, soprattutto con la mia assistente Elisa Rabelo de Juan, che è cubana ma vive a Parigi. Ho imparato a memoria i dialoghi per essere certo di capirli al meglio. Quanto a ciò che potrebbe sembrare più difficile – saper riconoscere se un attore sbaglia o meno l’intonazione, l’interpretazione – non mi è sembrato un problema: esattamente come sono capace di amare un attore giapponese in un film, sono capace di riconoscere quando uno dei miei attori commette o meno un errore.
Fino a che punto lei si rivede in questa storia?
La necessità del gruppo, la nostalgia dell’epoca in cui si credeva in un ideale, mentre oggi ho l’impressione di aver abbassato un po’ le braccia. Tutto ciò mi sembra sufficientemente universale perché io mi ci possa ritrovare. Cubano o no, la questione delle delusioni che si accumulano col passare del tempo è un male comune. Allo stesso modo, quando filmo i ragazzi americani degli anni ’50 ho la sensazione di parlare di quei ragazzi che oggi ritrovo nelle periferie parigine…
Intervista realizzata da Philippe Mangeot