Party Girl: trailer italiano e poster del dramma francese premiato a Cannes
Party Girl: video, trailer, poster, immagini e tutte le informazioni sul film drammatico di Marie Amachoukeli, Claire Burger e Samuel Theis nei cinema italiani dal 25 settembre 2014.
Il prossimo 25 settembre BiM porta nelle sale italiane Party Girl, dramma scritto e diretto da Marie Amachoukeli, Claire Burger e Samuel Theis e transitato a Cannes dove ha vinto il Prix d’ensemble nella categoria Un certain regard e la Caméra d’or.
Angélique ha sessant’anni. Ama ancora le feste, ama ancora gli uomini. La sera, per guadagnarsi da vivere, li invita a bere in un cabaret alla frontiera tra Francia e Germania. Con il passare del tempo i clienti diminuiscono. Ma Michel, il suo habitué, è sempre innamorato di lei. E un giorno le chiede di sposarlo.
Il film include materiale autobiografico, in particolare racconta un episodio della vita di Angelica Litzenburger, la madre di uno dei tre registi (Samuel Theis).
Party Girl uscirà il 25 settembre nei cinema di Roma e Milano per poi il 2 ottobre ampliare l’uscita in tutta Italia.
A seguire trovate la locandina italiana ufficiale, un’intervista con i registi del film e se volete è disponibile anche una recensione in anteprima da Cannes.
Intervista ai registi Marie Amachoukeli, Claire Burger e Samuel Theis
Cosa vi ha spinto verso questo personaggio e il suo entourage?
Il film tratteggia il ritratto di Angélique. È la madre di Samuel che ha avuto l’idea di mettere in scena la sua vera famiglia. Ogni componente interpreta se stesso. Attorno a loro, per incarnare gli altri personaggi, abbiamo scelto degli attori non professionisti.
Come vi siete ritrovati tutti e tre intorno a questo progetto?
Non siamo legati solo da rapporti professionali ed è stato il legame personale che ci unisce a permetterci di lanciarci in questa avventura di regia collettiva. Nella vita reale siamo grandi amici e ci conosciamo da molto tempo. Ci voleva una buona dose di fiducia reciproca per realizzare questo film insieme. Abbiamo unito le forze. Marie e Claire avevano già girato insieme vari cortometraggi, tra cui C’est gratuit pour les filles (César 2010 per il Miglior cortometraggio). E avevano già collaborato una prima volta con Samuel per la scrittura e la regia di un mediometraggio, Forbach (secondo premio della Cinéfondation 2008), girato durante la nostra formazione a La Fémis. Quel film metteva già in scena la famiglia di Samuel. In seguito è nato il desiderio di realizzare un lungometraggio sui suoi e naturalmente ci siamo ritrovati tutti e tre a lavorare insieme su questo nuovo progetto.
Qual è stato il punto di partenza della scrittura di questo film?
Tutto è iniziato con un evento realmente accaduto: l’insolito matrimonio di Angélique qualche anno fa. A quasi sessant’anni, quell’unione ha suscitato una serie di interrogativi. Ha rappresentato il bilancio di una vita, quella di una donna che ha conosciuto solo l’ambiente notturno e che si è decisa a sistemarsi solo in tarda età. Ai nostri occhi era una situazione straordinariamente cinematografica.
Come siete passati dalla realtà alla finzione?
Siamo partiti dal contesto autobiografico: la condizione dei figli di Angélique, la sua vita nel cabaret, le sue nozze, la figlia Cynthia data in affido a un’altra famiglia, eccetera. In seguito abbiamo dovuto trasformare gli eventi reali in finzione e organizzarli in modo da renderli una storia cinematografica. Per quanto riguarda i figli, abbiamo quindi preso spunto dai veri rapporti esistenti. In questo senso non abbiamo inventato nulla. Alla base c’erano situazioni sufficientemente intense. Abbiamo deciso che il matrimonio sarebbe stato il filo conduttore che avremmo sdipanato lungo tutto il film. E partendo da questi elementi reali, bisognava in seguito trovare una traiettoria forte per il personaggio di Angélique e per farlo abbiamo dovuto inventare anche delle scene, delle situazioni e delle sfide pur restando fedeli all’essenza dei personaggi. In pratica è stato necessario fare un percorso da funamboli, camminando su una fune tesa tra finzione e realtà. Eravamo tutti e tre garanti di questo fragile equilibrio, consapevoli che la finzione esige sempre che si compiano azioni forti, ma anche che il fatto di utilizzare la realtà ci imponeva cautela.
Angélique è un personaggio «bigger than life», come dicono gli anglosassoni!
Indubbiamente. È anticonformista, sfugge a qualsiasi parametro di riferimento. Con i figli, per esempio, non è soltanto una madre, è anche l’entraîneuse, la seduttrice. In ogni sequenza, Angélique porta con sé quello che è nel profondo e questo fa sì che il suo personaggio sia sconcertante. Ma al tempo stesso abbiamo dovuto riuscire a contenere questo aspetto della sua personalità per renderla sensibile e accessibile a tutti. In sostanza, si trattava di creare dei personaggi cinematografici in modo tale che qualunque spettatore potesse identificarsi in una situazione o in uno dei protagonisti del film. Se da un lato non dovevamo alterare determinati elementi, dall’altro ci capitava a volte di doverne stilizzare altri. Con Angélique siamo partiti da come lei è nella realtà. Molte cose sono davvero le sue, i gioielli per esempio, e non abbiamo avuto bisogno di inventare molto. Adoriamo la sua esuberanza, che spesso abbiamo dovuto contenere e a volte persino limitare! Volevamo renderla un personaggio senza tradirla. E attraverso lei, volevamo mettere in discussione l’amore, la famiglia, la libertà, il senso del limite. Angélique è libera o egoista? Spontanea o sconsiderata? Generosa o irresponsabile?
L’intero film è costellato di aperture verso orizzonti fantastici e romanzeschi. Tradisce un desiderio di romanticismo…
Per tracciare il ritratto di Angélique, avremmo potuto fare un documentario, ma abbiamo provato un forte desiderio di finzione. Il suo percorso è stato la nostra fonte di ispirazione e ha scatenato la nostra immaginazione. Volevamo raccontare una storia. C’è molta fantasia nella realtà, nella vita delle persone comuni. E questo vale anche per la vita di Angélique. È appassionante andare a scovare il lato romanzesco laddove viene tenuto nascosto in un angolo segreto. Il nostro compito consisteva nel trovarlo e nel mostrarlo. E al tempo stesso è stata la realtà a guidarci: volevamo che nutrisse e sostenesse la finzione ogni volta che fosse possibile. Abbiamo creato le condizioni affinché scaturisse nella fase della scrittura della sceneggiatura, nel corso delle riprese e durante il montaggio.
Vi siete sentiti degli esploratori della Lorena, una terra poco frequentata dal cinema?
Claire e Samuel sono originari di quella regione e sono cresciuti lì. Per questo motivo, sono intimamente legati al soggetto del film, al territorio, alla gente e al dialetto locale. Marie ha portato il suo sguardo esterno su questi luoghi. Il suo distacco è stato prezioso. Attraverso il ritratto e la storia intima di Angélique, emerge anche il racconto di un’intera regione e di una classe sociale. Partendo da lei abbiamo potuto mostrare in cosa consiste la vita di una entraîneuse e le conseguenze che questa scelta comporta sulla vita famigliare. Ma abbiamo anche potuto parlare degli uomini di questa regione, che sono ex minatori. Cosa fanno queste persone? Chi sono? Cos’hanno da dire? Abbiamo voluto portare il cinema nella Lorena, a questa famiglia, a queste entraîneuse, in luoghi dove il cinema non ha l’abitudine di andare. In un secondo momento bisognava allargare il campo, accogliere e provocare la finzione, il romanzesco, la messa in scena. E questa è stata una scommessa per noi, una sfida al tempo stesso inquietante ed eccitante. Abbiamo messo insieme una troupe molto versatile, disposta a seguirci in questa avventura, per cercare di costruire insieme un film diverso, fuori dai tradizionali schemi di produzione, ma con l’ambizione di rivolgersi a un pubblico il più vasto possibile.
Che metodo avete utilizzato per dirigere gli attori? Siete sempre ricorsi all’improvvisazione?
Gli attori conoscevano la storia, ma non abbiamo dato loro un testo da imparare a memoria. Si presentavano sul set e spiegavamo loro le sequenze pochi istanti prima di girarle. Partivamo dalle scene scritte, dalla traiettoria di Angélique, per riuscire a farli improvvisare e a cogliere al volo dei momenti di vita reale. Illustravamo il contesto, la situazione o il conflitto e poi li lasciamo recitare, correggendo il tiro mano a mano. È per questa ragione che la sceneggiatura è stata fondamentale: noi dovevamo essere molto preparati e dovevamo poterla usare come punto di appoggio, come riferimento a cui poter tornare ogni volta per non perderci nelle loro proposte. Abbiamo lavorato facendo in modo di essere sempre d’accordo tutti e tre. Ciascuno di noi aveva un monitor. Abbiamo preso insieme ogni decisione, in ogni fase della realizzazione del film, scelta che sarebbe potuta risultare ostica per i collaboratori, considerando che ha richiesto molto tempo. E la stessa cosa abbiamo fatto nel lavoro con gli attori, che abbiamo diretto tutti e tre insieme. Sul set per prima cosa recitavamo noi stessi la scena che avevamo scritto e poi gli attori si impadronivano del testo. Ma non c’erano vere e proprie regole e la situazione variava a seconda delle persone. Alcuni avevano a volte bisogno di appoggiarsi ai dialoghi così come noi li avevamo scritti. Altri trovavano il testo troppo vincolante e la loro recitazione ne risentiva, quindi era meglio dar loro solo le intenzioni. Chi interpretava la sua storia personale faceva leva sul suo vissuto e sulla sua familiarità con le situazioni riproposte. Ma eravamo sempre in attesa dell’incidente, anzi spesso lo provocavamo e la cosa ci entusiasmava. Era importante stimolare il movimento, accogliere l’imprevisto. Non erano attori professionisti, avevano bisogno di avere fiducia e di sentirsi liberi per riuscire a dimenticarsi completamente della videocamera. In questo senso, era la troupe che doveva adattarsi a loro e non viceversa. Modulavamo la scansione delle scene sulla situazione, ma non si trattava di una semplice registrazione della realtà. Gli attori ripetevano le scene più volte finché non ottenevamo quello di cui avevamo bisogno. Ci capitava anche di lasciarci sorprendere, scoprendo un ambiente o uno scambio spontaneo tra gli attori, e dunque inventavamo nuove sequenze. L’idea non era mai di vincolare la realtà, ma al contrario di restare aperti a quello che aveva da offrirci a 360°.
Come si è calata Angélique in questo personaggio che si ispira a lei ma è stato riscritto per il cinema?
Angélique ha avuto il coraggio di abbracciare completamente il suo personaggio. Fin dalla fase di scrittura, non ha mai voluto stendere un velo sui temi a volte complessi e spinosi che affronta il film: la sua vita marginale, il suo rapporto con i figli e gli uomini. Ha vissuto una vita nei locali notturni, alle feste, consumando alcool, ma è circondata da un alone di mistero. Noi abbiamo tentato di cogliere qualcosa di questo mistero insieme a lei. E lei ha accettato di aprirsi e di lasciarci entrare nella sua intimità e nulla sua interiorità.
Vi sentite vicini al movimento del cinéma-vérité?
Siamo consapevoli del fatto che nel nostro modo di fare cinema non inventiamo nulla di nuovo. Altri prima di noi hanno utilizzato il reale e hanno lavorato con attori non professionisti. Ma il nostro lavoro non si iscrive a livello teorico in un modo di fare cinema che ci affascina e che vogliamo riprodurre. Anche se il cinéma-vérité o il neorealismo ci parlano, ci ispirano e ci interessano, non rivendichiamo una parentela con quegli autori. Cassavetes, Pasolini o Pialat, tra altri cineasti, sono dei riferimenti anche per noi. Per realizzare Party Girl, abbiamo guardato più volte Mamma Roma, Una moglie, Wanda di Barbara Loden, film che sono ritratti di donne libere e anticonvenzionali.
In particolare per guarda il trattamento delle musiche, il montaggio è affrontato in modo tale che l’emozione non prenda mai il sopravvento…
La storia di Angélique trasmette molte emozioni, ma abbiamo cercato di non scivolare mai nel sentimentalismo. Proviamo un grande amore per le persone e i luoghi che abbiamo filmato, ma dovevamo stare attenti a non abbandonarci alla fascinazione o al compiacimento. Il rapporto intimo che ci lega agli attori del film e la dimensione personale della storia che raccontiamo ci hanno costretti a utilizzare particolare cautela in questo senso. Il fatto di essere in tre ci ha molto aiutati nel riuscire a tener il più possibile dritta la barra del timone. Del resto, non era necessario ricorrere ad effetti di regia troppo enfatici per rivelare i legami tra i personaggi e l’emozione che scaturisce da questi. E se in fase di montaggio abbiamo scelto di non permettere allo spettatore di accomodarsi comodamente in questa emozione è perché vogliamo che resti sorpreso dalla nostra proposta, che si incammini nel film senza sapere dove sta mettendo i piedi. Peraltro è questo che ci interessa: che di fronte a questi personaggi e a queste situazioni il pubblico sia sempre immerso nell’ignoto, al limite del disagio. Non per maltrattarlo o provocarlo, ma perché vogliamo non farlo sentire troppo a suo agio, in grado di riconoscere un tipo di cinema codificato, dove tutto è identificabile al primo sguardo.
In questo senso Party Girl è un film d’azione che coinvolge fisicamente lo spettatore dall’inizio alla fine.
È anche una commedia romantica, un dramma sociale, un film ritratto, un documentario di finzione, no? Se non altro, noi vorremmo che fosse tutto questo.