Venezia 71: quel che la Mostra ci dice prima ancora di cominciare
Ad un giorno dall’ufficialità dei film presenti alla prossima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, soffermiamoci su altro rispetto al programma
Certamente non vi sarà sfuggito che ieri è stato il giorno della selezione ufficiale di Venezia 71; tutti i film del concorso, del fuori concorso e di Orizzonti diramati in un’unica soluzione, per la gioia anche dei delusi, che finalmente possono dare il via alle solite litanie. Non che certi entusiasti siano da meno, dato che non meno dogmatica, o per lo meno ideologica, appare la loro difesa. Hanno tutti torto allora? Non necessariamente.
L’astrazione di fondo su cui si basano certe rimostranze sta anzitutto nei film, ossia nel non averli visti ma al tempo stesso presumere di saperne qualcosa. Un mantra che ci sentiamo ripetere talmente tante volte, in simili occasioni, che l’ovvietà muta facile in banalità. Eppure questa tendenza ci dice di più. Molto di più. E di certo non sono cose edificanti.
Kubrick asseriva che uno degli equivoci più grossolani stesse nel far coincidere il cinema con l’intrattenimento, o per lo meno limitarlo ad esso. Oggi, luglio 2014, si potrebbe dire che un meccanismo del genere si verifichi in relazione a ciò che è un Festival, o che per lo meno dovrebbe sforzarsi di essere. Lungi da noi offrire una definizione netta ed inequivocabile, ma sappiamo quantomeno di avvicinarci al vero sostenendo che un Festival, fatte salve le vocazioni specifiche, debba prima di ogni altra cosa “contribuire”. A cosa? Anzitutto al cinema, ovvio. Ma non solo. Consentirci di vedere il mondo al di là dei nostri confini, che per lo più sono mentali, talvolta spirituali, quasi mai territoriali, siccome siamo in un mondo ampiamente globalizzato e dalle distanze cortissime.
Diremmo dunque che è un male cercare in un film evasione, spettacolarità, situazioni improbabili e via discorrendo? Nossignore. Ma certe cose dispongono già di un canale, che è la distribuzione su larga scala. Non si tratta di elitarismo: ci sono produzioni che meritano di essere condivise, magari anche stroncate, non importa, ma che non avrebbero mai tale opportunità se non all’interno di un circuito di questo tipo. All’estremo vi è la tendenza, a ragion veduta vituperata dai non addetti ai lavori, per cui un’opera sinceramente sterile mira alla propria nobilitazione mediante la presenza a un Festival. È successo. Di tanto in tanto succede ancora, ma in tanti possono in buona fede garantirvi che tale fenomeno è sempre più marginale. Oramai è interesse di pressoché ogni Festival garantirsi una cospicua presenza di pubblico. Perché, tra le altre cose?
Qui veniamo al tasto dolente. Siamo in piena crisi, molti parlano addirittura di depressione, sebbene camuffata. Come si può pensare che un qualunque evento, un qualunque prodotto, in quanto tali, possano prescindere da certe logiche? C’è chi si sta strappando le vesti perché David Fincher e Paul Thomas Anderson non saranno al Lido «per ragioni di marketing». Qualcuno si è chiesto cosa possa tutto ciò significare?
Facciamo un passo indietro. Siamo nel 2012 e a Venezia c’è The Master, masterpiece (sic) annunciato di PTA, che non a caso esce da quel Festival con all’attivo un Leone d’Argento e due Coppe Volpi ex-aequo. Non tutti ricordano cosa avvenne dopo: al netto degli estimatori di Anderson, degli hipster e di qualche ben intenzionato, il film non andò per nulla bene al botteghino. Colpa di Weinstein, si disse, che ne cannò la promozione. Sarà. Sta di fatto che il film fu percepito da subito come art house, ed i premi della Mostra non fecero che acuire tale consapevolezza. 2014. Di Inherent Vice si sa per lo meno che è un film che non si pone come prodotto autoriale, concepito stavolta per una platea decisamente mainstream. Alla luce di quanto appena evidenziato, a che pro presentarsi al Lido? E questo è solo uno degli obstat che potrebbero essersi frapposti tra il desiderio di averlo al Festival e la realtà delle cose.
Ma la questione economica, inevitabilmente, è centrale a tutto campo. Quando il Direttore Alberto Barbera evidenzia che con la brutta parola marketing s’ha da confrontarsi, volente o nolente, ci va addirittura cauto. La strada intrapresa con abbagliante evidenza lo scorso anno, edizione numero 70, ci informa di una selezione che intende fare di necessità virtù. Dodici mesi fa, a differenza di oggi, si registrava proprio una penuria di titoli, data anche la voracità di Cannes; allora meglio cambiare direzione, proiettandosi verso qualcosa se vogliamo di più ambizioso, senza dubbio ad alto rischio. Da qui un Festival che ha avuto il coraggio di portare in Concorso un film come La moglie del poliziotto, opera che sfido anche coloro che ne hanno parlato bene a voler rivedere una seconda volta. O Under the Skin, film di rara potenza, che noi stessi abbiamo metabolizzato a fatica ma che al secondo giro è sceso giù alla grande.
Dicevamo della crisi, di un momento epocale, ma non saremo certo noi ad assumerci competenze di cui non disponiamo. Ed allora diamo la parola a Bruno Rizzi, uno dei fondatori del Partito Comunista Italiano, da cui fu espulso per via delle derive che aveva anzitempo scorto. Avvicinatosi a Lev Trotzki, intrattenne con quest’ultimo una fitta corrispondenza dalla quale ricavò materiale essenziale per la sua opera. Opera, quella di Rizzi, letta da personaggi del calibro di George Orwell e Guy Debord, giusto per inquadrare la questione. Ebbene, ecco cosa ebbe a scrivere Rizzi: «quando il mercato si estingue, la civiltà regredisce e l’arte, l’economia, l’architettura, la poesia, la politica e ogni altra manifestazione del progresso umano sprofonda negli abissi della barbarie».
Siamo esattamente a questo punto, senza per forza ricorrere ad analisi storiche, sociali o economiche che vanno al di là degli strumenti a nostra disposizione. Soffermiamoci però su tali, devastanti, perentorie affermazioni, perché solo così si può in parte capire come mai non tutte le Mostre sono «come quella del 2011». E ammettiamo candidamente di parlare senza nemmeno troppa cognizione di causa circa le logiche e i meccanismi di un circuito di cui sanno solo coloro che operano al suo interno, non certo noi. Solo che tutte le volte che si alza un polverone perché il «cinema italiano versa in condizioni pietose», perché «i Festival non sono più quelli di una volta», a me, che in fondo sono giovane e che di ricordi ne ho pochi ma buoni, mi viene in mente quel piacevole incontro con Sergio Martino.
Il regista di Torso, Mannaja, Giovannona Coscialunga disonorata con onore, Lo strano vizio della signora Wardh, L’allenatore nel pallone e via discorrendo, per intenderci, mi illustrò molto stringatamente, fuori dai denti, cosa avvenne in quegli anni considerati d’oro per il nostro cinema (ho le prove). L’industria cinematografica italiana campava della rendita di film che la critica per lo più snobbava, i cosiddetti b-movie; solo che, giusto per dare un’idea, i nostri film sul mercato internazionale costavano meno di altri e se ne facevano molti. Compratori dall’estero, specie americani, venivano qui a fare man bassa di opere anche modeste, se non mediocri, con la soluzione dei pacchetti, tanto per quello che costavano…
Ogni tanto saltava fuori che qualcuno di questi fosse pure valido, ma il punto è che autori come Lenzi, Damiani, Corbucci, Bava, Fulci, Castellani, Margheriti o lo stesso Martino, tutti nomi recuperati a posteriori grazie proprio a certi americani (tra cui arcinoto è Tarantino), reggevano da soli l’intera baracca. Solo in un contesto di questo tipo era anche solo ipotizzabile investire nei vari Fellini, Antonioni o chi per loro, i quali, senza un ingranaggio ben oliato dai proventi dei cosiddetti film minori (che vendevano bene anche internamente, è chiaro), mai avrebbero potuto regalarci pezzi di storia non solo del nostro cinema ma di quello internazionale. E come avete visto, si trattava di logiche per lo più di mercato. E no, non scorsi neanche un cenno di autocompiacimento nelle parole del regista romano, che anzi ammise con altrettanta onestà i limiti di certo modo di fare cinema.
Questo in parte anche per rispondere a chi soffre di una certa esterofilia a 360 gradi, per cui tutto ciò che ha a che vedere con l’Italia è cacca. Tanti, troppi i problemi, per lo più endemici, spesso sociali, quasi sempre culturali. Ma ci pare che sui vari Martone, Munzi e Costanzo si stia glissando con troppa indolenza. Barbera dice che i film di Munzi e Costanzo sono diversissimi: il primo lo ha girato in un paesino della Calabria, il secondo a New York. Due modi attraverso cui guadagnarsi un’identità, senza dare nulla per scontato in un’epoca a cui mancano appigli di sorta, dunque in cui tocca brancolare nel buio. Ma, anche se al buio, serve saper camminare.
In tal senso è ancora fresca la diatriba post-Oscar a La grande bellezza, che come ogni cosa dalle nostre parti, non ha fatto altro che creare fazioni. Ci siamo divisi tra noi stessi, cosa che storicamente siamo bravissimi a fare, e meglio di chiunque altro: è bello, no è brutto, no è un capolavoro, ed invece ti dico che è una truffa. Senza capire che in un Bel Paese che renda giustizia a tale soprannome, in cui tutto funziona, pur lungi dall’utopistica perfezione, di film come quelli di Sorrentino, così smodatamente ambiziosi, tanto da mettere quasi in soggezione, se ne produrrebbero dieci all’anno e non uno ogni dieci anni. A prescindere che piacciano o meno, ché, come sempre, non importa. O importa dopo.
Ma sapete di cos’è indice, per tornare a quanto ci siamo detti in apertura, questa tendenza al dibattito per posizioni, così rigidamente strutturato, sia da una parte che dall’altra? Di una cosa ben più grave, pericolosa ed anche mortificante: l’assoluta incapacità di meravigliarsi. Anzi, del rigetto totale verso questo stato d’animo o habitus mentale che sia. Pochi, e sono sempre meno, quelli che accettano la sfida che una qualunque opera pone, che accettano di essere messi alla prova. Per poi incazzarsi, sentirsi presi per i fondelli magari, perché no? Oppure, al contrario, per essere semplicemente contraddetti, dopo che qualcuno ti ha mostrato qualcosa in un modo che non avresti mai pensato. Fuori dalla portata del proprio radar. Ed invece al di là delle colline che si vedono a occhio nudo c’è solo territorio ostile. Un nemico invisibile che forse non esiste nemmeno; ma gli euforici e i depressi questo non lo scopriranno mai.