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Duran Duran: Unstaged – Recensione in Anteprima del docu-film diretto da David Lynch

23 marzo 2011. Los Angeles. Un concerto, una band e un regista. Duran Duran: Unstaged, diretto da David Lynch, approda nelle nostre sale solo per tre giorni

pubblicato 17 Luglio 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 23:57

Erano gli anni ’80, e tra gli adolescenti (ma soprattutto le adolescenti) imperversava una musica “nuova”, quintessenzialmente anni ’80, anche perché di lì a poco si smise di farla, sopravvivendo a malapena in qualche gruppo. Qui in Italia fecero pure un film più o meno a tema, quel Sposerò Simon Le Bon (1986) che informò le generazioni successive di una diatriba accesissima, quella tra i Duran Duran e gli Spandau Ballet. Scontro che probabilmente poco aveva a che vedere con la musica e molto con i rispettivi leader, Le Bon, per l’appunto, e Tony Hadley. Entrambi i gruppi britannici, ciascuno seguì invece la sua strada, essendo i Duran Duran fedeli esponenti del synthpop di quegli anni, mentre gli Spandau si gettarono a capofitto sul cosiddetto neo-romantico. Ma questa è un’altra storia.

Quella di cui parliamo in questa sede riguarda invece uno strano esperimento, a circa tre decenni da quando queste band esplosero. Il 23 marzo del 2011, infatti, i Duran Duran tengono un concerto al Mayan Theatre di Los Angeles. L’occasione è volta a promuovere il loro ultimo album, All You Need Is Now, con un concerto che è più di un concerto. Unstaged diventa dunque un evento a tutto tondo, perché l’idea è quella di non lasciar cadere nei ricordi degli intervenuti la serata, bensì conservarla a futura memoria. Dove sta la novità allora? Beh, se ad occuparsi dell’archiviazione è un certo David Lynch è certo che l’iniziativa non può più passare inosservata.

Per intenderci, il prodotto è ciò che appare in copertina: David Lynch gira le riprese di un concerto. Né più né meno. L’intuizione, però, è quella di sovrapporre più strati lungo l’intera durata dell’evento. Lo sfondo costante è rappresentato dalle immagini catturate al Mayan, in bianco e nero; a queste Lynch aggiunge una serie di sequenze in linea con la sua fama. Dunque soggetti bizzarri, situazioni oniriche, barbie desnude, un sole che copre l’intera inquadratura, topi di pezza che cantano e quant’altro.

A ‘sto giro non tocca nemmeno unire i punti, perché Lynch viene qui svincolato dall’incalzante necessità narrativa, potendosi concedere trovate alle quali non serve conferire alcuna coerenza. Siamo più dalle parti del videoclip di lunga durata, territorio per certi versi congeniale all’ultimo Lynch, che non a caso a ridosso dell’esperienza sul palco-set dei Duran Duran girò questo video per promuovere il suo singolo Crazy Clown Time. Nel caso di Unstaged, a dispetto della continue sovrapposizioni, il regista sa di dover mettere un freno alla propria indole; ed infatti il viaggio appare meno allucinato sebbene complesso, multistrato.

Si potrebbero sprecare fiumi e fiumi d’inchiostro digitale nel tentativo di descrivere non tanto certe immagini quanto il loro stile, la loro densità. Ma è una tentazione a cui resistiamo, anche se qualcosa va detta. Più che in Crazy Clown Time, l’artista contemporaneo originario del Montana si pone nella prospettiva di colui che intede negare la visione. Se Duran Duran Unstaged ci dice qualcosa, lo fa proprio in relazione al percorso di Lynch: tale lavoro non va infatti visto come una parentesi, una pausa. Questa è l’idea inesatta di chi ha tanto innalzato il lavoro del Lynch regista quasi astraendolo da tutto il resto, mentre i suoi film altro non sono che espressione di una produzione più ampia che nell’economia dell’arte lynchana assumono la stessa valenza dei suoi quadri o della sua produzione musicale (azzardiamo col dire, addirittura, del suo brand di caffè).

Il nostro, dopo anni sulla cresta dell’onda dietro la macchina da presa in ambito cinematografico, pare tollerare sempre meno la “rigidità” del prodotto film, mentre a lui interessano le sfumature e solo quelle. Le immagini che lui crea, fondendosi, si perdono nell’indefinito di un significato nuovo, diverso, che sfugge alla vista puntando invece alla percezione. A quanti verrà in mente, guardando Unstaged, che è come se Lynch avesse spostato le lancette e portato la corrente psichedelica in un periodo in cui oramai certe cose non le fa più nessuno (e non senza motivo peraltro)! Insomma, Lynch è sempre lì tra il cosciente e l’incosciente, ossia ciò che si può descrivere ma non necessariamente spiegare. Rifiuta la nettezza di una qualsiasi icona, restituendocela alterata, mescolata ad elementi per lo più alieni, di tutt’altra natura – che è poi la cifra che ha contraddistinto la pittura del secolo scorso rispetto a quella precedente. Da qui alcune autocitazioni, come le fiamme che in più occasioni si sovrappongono a quanto ripreso al Mayan.

Insomma, si veda in Duran Duran: Unstaged una sorta d’installazione più che altro. Perché altro non si può dire. Anche se, nella misura in cui la si considera un frammento di arte contemporanea, si finisce col parlare di nulla, dovendo riempire spazi volutamente e ambiguamente lasciati vuoti dall’opera. Questo per dire che se di solito trovate noiose, sterili e supponenti certe critiche ad opere pseudo-artistiche, la colpa non è solo del critico ma prima ancora dell’artista, il quale lo “forza” a sproloquiare su e intorno al nulla.

Precisazione doverosa alla luce della definizione che abbiamo dato in apertura del precedente capoverso. Perché in generale non è affatto difficile individuare il target di questo prodotto, che anzitutto corrisponde all’identikit del fan dei Duran Duran. Banale ma vero. E sorriderete quando Beth Ditto, dopo un duetto con Le Bon, uscirà di scena gridando «motha’ fuckin’ dreeeam!». Quanto agli estimatori di Lynch, beh… pensate che questi, specie se del personaggio in questione ne hanno fatto un culto, stessero aspettando di leggere una recensione? Per loro sarà l’ennesimo capolavoro partorito dal maestro, Re Mida sui generis, nel senso che tutto ciò che tocca diventa arte. Gli altri si accomodino pure qualora volessero ascoltare per circa due ore un po’ di musica che si spera aggradi, oltre che fare un salto negli anni ’60. Non sempre ci riescono, ma quelle poche volte che le immagini ti catturano, si corre il rischio di venirne risucchiati. Anche senza LSD.

Voto di Antonio: 6

Duran Duran: Unstaged (USA, 2011) di David Lynch. Con Simon Le Bon, John Taylor, Roger Taylor, Nick Rhodes, Gerard Way, Beth Ditto, Kelis, Mark Ronson, Travis Dukelow e David Lynch. Nelle nostre sale solo il 21, 22 e 23 luglio nell’ambito dell’iniziativa Woovie Nights.