Under the Skin: perché il film di Jonathan Glazer è un’esperienza da non perdere
A quasi un anno dalla premiere a Venezia, e a poche settimane dall’uscita nelle sale italiane, ritorniamo su Under the Skin, il discusso lavoro di Jonathan Glazer con Scarlett Johansson nei panni di un’aliena che si aggira per la Scozia. Non ci sono più dubbi: per chi vorrà, sarà una delle esperienze del 2014.
L’articolo contiene vaghi spoiler.
Freud definiva il perturbante come una cosa che l’essere umano avverte come familiare e allo stesso tempo come estranea. Se ciò succede, si crea nell’essere umano una particolare sensazione di angoscia che può pure sfociare in paura. Il processo stesso che porta al perturbante è spesso confuso, come in molti film in cui si prova smarrimento e disagio.
Under the Skin è un film perturbante. Dentro di sé ha immagini suoni idee trovate sensazioni che tutti noi abbiamo già visto in decine di film o letto in decine di libri. Eppure non si può negare che, anche solo a tratti, nel contesto del film, queste idee, queste immagini, questi suoni abbiano qualcosa di angosciante e regalino sensazioni forse inedite.
Che Under the Skin non fosse un film per tutti lo si era capito sin dalla presentazione a Venezia. Non è certo un film per la (maggior parte della) critica italiana, che l’ha subito distrutto e deriso. Non è un film per il grande pubblico, che l’ha fischiato all’anteprima in Sala Grande (con cast in sala: che eleganza). E allora a chi si rivolge, Under the Skin? A chi vuole semplicemente provare un’ennesima esperienza cinematografica fuori dai canoni?
Gira che ti rigira, forse sì. Che il londinese Jonathan Glazer, tra i migliori registi pubblicitari al mondo, avesse preso sul serio il cinema come un mezzo-sfida era ben chiaro grazie ai suoi due precedenti lavori. Soprattutto Birth – Io sono Sean, sinfonia glaciale e discontinua che, guarda caso, sapeva come mettere a disagio lo spettatore.
In quel caso lo spettatore si ritrovava sperduto, un po’ frustrato e un po’ ipnotizzato nel seguire il ritmo altalenante del film sposando il punto di vista di una donna rimasta vedova dalla quale un bel giorno arriva un bimbo che dice di essere la reincarnazione del marito. Under the Skin è una sfida più rischiosa, anche se tenta ancora una volta di far immedesimare lo spettatore con la protagonista. Solo che la protagonista in questo caso è un’aliena.
Rivisto per la seconda volta, è limpido e palese che Under the Skin sfrutta la sua estetica particolare e ricercata per far vedere allo spettatore il nostro mondo con occhi alieni. Come si diceva, ci sono tante idee di regia e tante immagini che abbiamo ben visto altrove (Lynch, Kubrick, persino Cronenberg): in Under the Skin non c’è un “segno” che non abbiamo già avvistato. Tutto è familiare. Eppure il risultato riesce a disturbare e forse ipnotizzare. Pure soltanto a tratti, e questo lo riconosceranno persino i detrattori, altrimenti c’è qualcosa che non torna.
Under the Skin ha scene intere che sono pura e laccatissima videoarte. Tutte le scene in cui l’aliena fa cadere nella sua “rete” i poveri malcapitati di turno sono inglobate in uno spazio bidimensionale totalmente nero. La colonna sonora di Mica Levi (pazzesca, tra minimalismo e anti-melodia) contiene brani cacofonici e sonorità inquiete da sci-fi anni 50. E Under the Skin in fondo è un film di fantascienza, fosse solo per la presenza di un alieno sulla Terra.
L’aliena di Under the Skin, “creata” nelle prime e stranianti immagini d’apertura, si aggira per la Scozia su un furgoncino in cerca di uomini. Molti scozzesi si sono arrabbiati per come vengono messi in scena, e per come il film rappresenti la povertà e in fondo la “pochezza” delle vite ordinarie di Glasgow e dintorni. Ma a Glazer non gliene frega nulla di imbastire l’ennesimo “affresco socio-politico” di un’Inghilterra povera a discutibile.
Se gli interessa è forse soltanto perché conosce bene quei luoghi, e forse perché aveva un location manager dal fiuto incredibile (guardate la scena con il mare e gli scogli). Quel che gli interessa è, appunto, far percepire allo spettatore qualcosa che ben conosce con occhio inedito. Anche chi non è mai stato in Scozia avrà visto qualche film inglese ambientato in quelle zone: ma riconoscerà che il modo in cui le persone vengono riprese negli ambienti ha qualcosa di inedito. Perturbante, appunto.
Scarlett Johansson regala corpo e poche parole ad un’aliena chiamata ad “interpretare” una donna, che impara quindi l’abc del ruolo femminile sulla Terra per poter portare a casa il suo compito: impara quindi a sedurre. Una pelliccia, un rossetto, e via. Quello è il suo compito, probabilmente assegnatole dall’uomo in moto che vediamo spesso durante il film. Poi però vive l’ambiente, impara i codici, legge i segni umani, impara a interpretarli e ripeterli. Impara a comprendere, capire e riprodurre.
In uno dei pochi dialoghi del film, l’aliena sta seducendo un ragazzo di 26 anni dalla faccia visibilmente deformata. Per noi umani, a prima vista, un vero e proprio freak. Il ragazzo dichiara di non avere avuto mai una ragazza e nessuna esperienza sessuale. L’aliena capisce forse grazie alle sue parole che non è un essere umano bellissimo, e allora lo seduce dicendogli che ha delle belle mani. “Quando è stata l’ultima volta che hai toccato qualcuno?”.
Poi però, dopo essersi osservata attentamente allo specchio, capisce che c’è qualcosa che non va. E scatta un cortocircuito dal quale l’aliena non potrà più tornare indietro. Un improvviso scatto di empatia, la comprensione che quel viso non era “canonico”, e che nelle parole del ragazzo c’era forse qualcosa di più. L’aliena inizia a pensare come gli esseri umani, e scopre una volontà di integrazione che porta sempre più al bisogno stesso dell’integrazione.
Non è certo facile il compito di Under the Skin. Chiede allo spettatore di affidarsi al mondo che crea facendo sì che stile, sguardo ed estetica siano il collante “empatico” tra lui e il film. Il sound design (provate a sentire il tappeto sonoro, i silenzi e i rumori della scena con i due “uomini blu”) fa un lavoro supremo in questo senso. E la colonna sonora sa bene come cambiare marcia e regalare calore senza farlo notare troppo (c’è una traccia che non a caso si chiama “Love”).
Forse l’estetica del film corrisponde esattamente al suo contenuto. E quel che alla fin fine ci dice Under the Skin è tanto familiare eppure disturbante quanto il suo stile e le sue immagini: il nostro mondo non è pronto per gli alieni. Perché è l’essere umano a non essere pronto. L’essere umano non è fatto per indossare un’altra pelle. Né tantomeno potrà mai diventare candido come la neve. Under the Skin è un film perturbante in cui all’angoscia umana si sostituisce in modo inedito una inattesa tristezza. Ovviamente “aliena”.
Under the Skin uscirà nelle sale italiane ad agosto grazie a Bim. Qui la recensione da Venezia.