Carta Bianca: al cinema e al confine con l’altro
Dalla cronaca nera alla Carta Bianca di Andrés Arce Maldonado, al cinema e al confine con l’altro con Distribuzione Indipendente, dal 26 giugno 2014.
Il giovane immigrato marocchino Sahid Belamel, morto di freddo sul ciglio di una strada di Ferrara, nell’indifferenza generale dei passanti durante la mattina del 14 febbraio 2010, e il ritratto dell’umanità contemporanea che emerge dai fatti di cronaca nera del nostro paese, diventano Carta Bianca in mano al regista Andrés Arce Maldonado e lo sceneggiatore Andrea Zauli.
Uno stimolo per spostare la macchina da presa ai margini della strada e della società raccontando la paura dell’altro, attraverso tre esistenze dure e violente di un atipico pusher marocchino, una bella badante moldava e una grintosa imprenditrice italiana.
Kamal (Mohamed Zouaoui ) ama i libri, è nemico di ogni fondamentalismo e sogna di diventare italiano, europeo, occidentale, mentre spaccia droga nella biblioteca di quartiere.
Vania (Tania Angelosanto) è moldava, bella, gentile, religiosa e perseguitata dalle allucinazioni del suo mostruoso passato, mentre lavora come badante.
Lucrezia (Patrizia Bernardini) ha la grinta dell’imprenditrice italiana, innamorata della sua azienda e del suo cane, finita tra le grinfie dell’usuraio .
Tre storie di confine, soprattutto quello dell’alto dal se, che non lesina chi indossa maglie della nazionale Italiana come bandiere di frontiera, per un microcosmo umano duro e livido, che passa dalla Roma alla vigilia di San Valentino, al cinema del circuito di Distribuzione Indipendente, a partire dal 26 giugno 2014.
Note di Regia
Il progetto di Carta Bianca nasce nell’inverno del 2010, con la morte di un giovane immigrato, Sahid Belamel. La lettura del (provocatorio) necrologio pubblicato sul quotidiano La Nuova Ferrara mi ha smosso qualcosa dentro: «Ci ha lasciato nell’indifferenza generale dei passanti la mattina del 14 febbraio, festa di San Valentino. Abbandonato in agonia in via Colombo, è morto di freddo».
Anch’io sono un immigrato e, prima ancora, un essere umano – un essere umano come questo ragazzo che nessuno ha voluto aiutare mentre stava morendo per ipotermia sul ciglio di una strada, umano come gli automobilisti che gli sfrecciavano di fianco senza fermarsi. Mi sono chiesto: come è possibile che accadano episodi così tragici e assieme grotteschi? Cosa avrei pensato pochi secondi prima di morire se fossi stato al posto di Sahid? E ancora: al posto degli automobilisti, mi sarei fermato ad aiutarlo oppure avrei tirato dritto?
È anche per rispondere a queste domande che ho deciso di realizzare Carta Bianca. Un lungometraggio che, partendo dallo spunto di cronaca (quello di Sahid, ma anche di altri), raccontasse qualcosa sull’Italia di oggi e più in generale sul rapporto tra noi e gli altri, suggerendo riflessioni sulla natura umana.
Assieme allo sceneggiatore Andrea Zauli abbiamo messo in piedi tre storie forti, dure, attuali, dove tre personaggi (due stranieri e un’italiana) si incontrano e si scontrano. Nessuno lo sa, ma ciascuno cambierà la vita dell’altro. Le storie sono diversissime l’una dall’altra per il carattere dei tre protagonisti, per il registro visivo (la fotografia è curata da Maura Morales Bergmann, il cui corto A Chjàna ha vinto la sezione Controcampo Italiano a Venezia 2011), e per la maniera in cui si concludono. Sono invece accomunate:
sociologicamente dal tema dell’immigrazione clandestina, in particolare dal miracolo-miraggio del permesso di soggiorno. L’argomento della convivenza tra indigeni e allogeni è stato cruciale negli scorsi decenni e resterà attualissimo nei prossimi;
psicologicamente dalla solitudine e dall’indifferenza, raccontate come malattie della contemporaneità, veleni dell’anima peggiori persino del razzismo e della xenofobia;
spazialmente dalla cornice di Roma. Se tutte le strade portano a Roma, allora tutti, potenzialmente, possono arrivarci. Arrivare in Italia, quindi in Europa, nell’Occidente ancora opulento ma in realtà in grave affanno. Roma diventa così l’emblema di altre mille città, una vera caput mundi, nel bene e nel male. Quello che capita ai protagonisti del film può capitare a chiunque, in qualsiasi luogo del nostro Paese, in qualunque punto del pianeta.
temporalmente dalle circa venti ore nelle quali le storie si dipanano, tra la mattina di sabato e l’alba di domenica 14 febbraio (San Valentino).
narrativamente dagli snodi in cui le storie si intrecciano, illuminandosi e incendiandosi l’un l’altra.
Conoscendo la burocrazia italiana e per giunta non essendo italiano, non ho pensato neanche per un minuto di chiedere finanziamenti al Ministero dei Beni Culturali e ho optato per l’autoproduzione. Una specie di triplo salto mortale per un progetto con oltre trenta personaggi, cinquanta location e centoquaranta scene.
Autoproduzione non è però sinonimo di qualità mediocre: tutta la troupe è composta da professionisti del settore che hanno lavorato al film perché innamorati dell’idea di raccontare e lavorare con quella libertà narrativa e formale che il sistema cinetelevisivo italiano non permette. Inoltre abbiamo avuto a disposizione la tecnologia necessaria per un prodotto tecnicamente eccellente (per esempio, abbiamo usato per le riprese le stesse macchine digitali con le quali è stata girata l’ultima stagione di Dr. House). Autoproduzione significa che Carta Bianca è un esperimento cooperativo, dove ogni professionista (autori, attori, tecnici) non riceve un compenso, ma diviene co-proprietario del film e godrà vita natural durante degli utili da esso generati.
Da un lato Carta Bianca riflette il mondo così com’è, senza compromessi da fiction televisiva. Ogni personaggio parla la lingua che parlerebbe nella realtà: il maghrebino parla in francese col senegalese, in arabo quando riflette a voce alta e in italiano con gli altri stranieri; la moldava parla italiano con l’amica albanese e in moldavo con le allucinazioni che popolano la sua fantasia; gli italiani non parlano in modo foneticamente perfetto e dunque irrealistico, ciascuno possiede una cadenza dialettale. Dall’altro Carta Bianca suggerisce il mondo come vorremmo che fosse. Il realismo linguistico infatti non corrisponde alla rigida osservanza dei confini della nazionalità. Nel cast ci sono attrici italiane che interpretano personaggi dell’Europa dell’est, il milanese che sfoggia un accento pugliese, il tunisino che si finge marocchino. Quasi a irridere le ingessate regole della burocrazia internazionale.
Anche la troupe è variegata, mobile, transnazionale: io sono colombiano ma vivo a Roma da quando ho dodici anni, la montatrice è sudamericana come me ma lavora in Olanda, lo sceneggiatore è un romagnolo trapiantato a Roma, la web designer del sito (www.cartabiancafilm.com) oscilla tra Italia e Dubai, la direttrice della fotografia è italiana ma di sangue cileno e tedesco, e così via. Il telaio produttivo e artistico del film assomiglia un po’ all’Italia che vorremmo, dove ognuno offre agli altri il meglio delle proprie differenze, iscrivendole nella cornice di una visione comune, dove le persone (italiane e non) lavorano assieme per creare valore e ricchezza, cultura e solidarietà – una metafora dell’immigrazione come formidabile strumento per arricchire e svecchiare la società italiana.
Andrés Arce Maldonado
Nota dello sceneggiatore
Non è un segreto che scrivere soggetti e sceneggiature per il cinema e la tv sia un esercizio di masochismo, un continuo flirt con la frustrazione. Nel passaggio dalla carta allo schermo le delusioni sono all’ordine del giorno. Tu, autore, non riconosci più la tua storia, i tuoi personaggi, le loro battute cambiano, le loro azioni si banalizzano. Questo può succedere per mille motivi: la produzione che massacra lo script, il regista che ha una visione differente dalla tua, gli attori, la fotografia, il montaggio… tutto congiura contro di te.
Invece l’esperienza di Carta Bianca per me è stato un balsamo. Ho scritto in piena libertà assieme al regista e, nonostante i mille ostacoli produttivi, il risultato finale mi soddisfa tantissimo. Ho sempre visto la sceneggiatura di Carta Bianca come un romanzo per immagini e tale mi sembra anche il film: un racconto a tre voci che pagina dopo pagina, inquadratura dopo inquadratura, fa venire voglia di vedere cosa succede dopo e scoprire cosa è successo prima. C’è l’ansia per il cosa e la curiosità circa il perché, lo spettatore si gode la sorpresa e la suspense.
La genesi dei personaggi principali si basa su tre stereotipi: il tunisino spacciatore, la moldava prostituta, l’italiana grintosa. Dopo un lungo lavoro di ricerca e documentazione, abbiamo grattato via la vernice ed è emersa la sostanza originale della loro psicologia e della loro storia. Kamal sembra il classico pusher nordafricano, ma in realtà è un uomo di cultura raffinata e non vuole avere nulla a che fare con la sua gente. Tant’è vero che esige di farsi chiamare Sandro, non Kamal. Vania sembra la classica badante e colf dell’Europa orientale, gentile e timorata di Dio, ma in realtà era una prostituta e soffre di violente allucinazioni che cerca di tenere a bada con gli psicofarmaci. Lucrezia sembra la classica business woman tutta d’un pezzo, che usa gli uomini come giocattoli, ma in realtà è un’anima fragile che stravede per il suo cagnolino e si trova sull’orlo della bancarotta morale ed economica.
Carta Bianca sembra il classico film sull’immigrazione ma è qualcosa di più, qualcosa di diverso. Siamo partiti dall’argomento attualissimo degli stranieri, degli irregolari, degli attriti tra immigrati e italiani, ma il tema delle tre storie è un altro: la paura. Kamal ha paura di essere uguale agli altri maghrebini, e di essere uguale a suo padre che ammazzò di botte la mamma. Lucrezia ha paura di dipendere dagli altri – soprattutto dagli uomini, dai maschi –, e ha paura di smarrire la propria indipendenza psicologica e materiale. Vania ha paura di venire abbandonata dagli altri e cerca la salvezza fuori da sé – le amiche vive e morte, il Dio della sua fede cristiano-ortodossa, lo stesso Kamal, persino le frasette dei baci Perugina. Purtroppo nessuno può salvarsi se non da solo e con le proprie forze.
Declinato nelle tre storie, il tema dell’immigrazione si trasfigura in una riflessione più ampia e universale sulla natura dell’uomo e della società.
Andrea Zauli