Perché si torna volentieri agli attori di “sempre” e si parla sempre meno degli attori del “presente”. Il caso di Valentina Cortese
Non voglio, ora, qui, tornare sulla questione degli attori italiani che fanno fatica a imporsi, ci sono, ma non pesano abbastanza, come mai?
Non se ne parla tanto. Di cosa? Della continua emarginazione della figura dell’attore nel cinema e nel teatro italiano. I nomi si contano sulle dita, i nomi, voglio dire, che chiamano il pubblico e diventano punti fissi nel firmamento dello spettacolo. Per il teatro, non ci sono più le ditte (tipo Valli-De Lullo-Albani-De Ceresa; o Paolo Stoppa e Rina Morelli, etc); gli stabili dopo la grande avventura di Giorgio Strelher al Piccolo di Milano, si servono sempre degli stessi attori e li sostengono ma nessuno di loro riesce a luccicare come una stelle. Non so neppure se la qualità è migliorata nella gran massa (neanche tanto grande) di attori che sono scritturati da queste costose macchine statali; insieme ad altre macchine di più recente, ma non tanto, costituzione.
L’avanguardia svelò e si abbarbicò a Carmelo Bene, e ai suoi transitori attori; a Leo De Berardinis, Memè Perlini e a Giancarlo Nanni (di cui trasmette il ricordo la sua ex compagna Manuela Kusterman). Il cinema, quel che cinema che diventò grande “anche” per i protagonisti sul set, va come un cane randagio cercando sostituzioni che non trova: magari promuove esordi, conferma fiducia, ma non si può dire che abbiamo figure all’altezza di queste, ne cito alcune per non aggravare il dolore della loro scomparsa: Marcello Mastroianni, Monica Vitti, Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Nino Manfredi, Raf Vallone, Ugo Tognazzi, e così via.
La situazione, anzi il “fenomeno” lo si può spiegare, come facciamo abitualmente, con ll dominio del regista che fin dai primi del Novecento è stato inteso come la massima maturità della scena e del set, definito pure unico, indispensabile, insostituibile, padreterno con diritto di vita e di morte (si fa per dire), dittatore assoluto della creatività. Corteggiato, ben pagato, adorato dalla politica e dalle ideologie.
Mi fermo qui. Il discorso sarebbe lungo, non voglio tirarlo in queste righe come un vecchio elastico. Faccio un solo esempio tra passato e presente (per il futuro, chissà). Lo ricavo da un libro che presenterò a Viterbo il 3 giugno, scritto da Alfredo Baldi, dedicato a una brava, affascinante attrice: Le nove vite di Valentina Cortese – Con l’affettuosa partecipazione di Valentina Cortese. Valentina ha novant’anni e una carriera invidiabile, come si diceva una volta, tra cinema, teatro, televisione; non ho lo spazio di ripercorrerla. Ho solo il bisogno, e bi-sogno, doppio sogno di spezzare una lancia a favore di un’attrice, che è stata diva in maniera paradossale, divertita, sfuggente.
Nel cinema, entrò nel 1941. Tra i film che ho visto da quando io come tanti ho aperto gli occhi al cinema, ne cito alcuni: “La cena delle beffe” (1942) , “Nessuno torna indietro”(1942) di Alessandro Blasetti; “Roma città libera (La notte porta consiglio) , 1946 di Marcello Pagliero; “Cagliostro” ( 1949) di Gregory Ratoff, con Orson Welles; “Malesia” (1949) di Richard Thorpe, con Spencer Tracy)… L’elenco, ripeto, è lungo e nei titoli, accanto a Valentina, nomi di Hollywood a iosa, compreso Richard Basehart, che divenne suo marito, in “La strada” (1954) di Federico Fellini, con cui fece anche “Giulietta degli Spirit” (1965). Voglio terminare citando “La nuit americane /Effetto notte” (1973) di Francois Truffaut, di cui molti, moltissimi tra i cinefili ricordano la brillante apparizione.
Detto questo, per svegliare memorie e per ricordare un invidiabile cammino, una cosa va precisata. Il cinema ha bisogno di bravura, ma ha assolutamente bisogno di buone storie, sceneggiature, regie; ma soprattutto di “classe”, ovvero quello stile che si può avere, che un attore può creare, ma che è il prodotto sul set e fuori di una mentalità lucida, vincente, anticonformista; insomma, un po’ speciale. Se ci guardiamo intorno, nel nostro piccolo, un piccolo che personaggi come Valentina illuminavano, di luci speciali non se ne scorgono. Credo di sapere perché. Troppa mediocrità nelle scelte delle produzioni (le comprese le tv che si mangiano il cinema), nell’ambiento stesso del cinema, tra ambizioni esagerate, spesso sbagliate, e vanagloria. My funny Valentine, cantava Chet Baker, forse si riferiva a lei.
I miracoli il cinema non li fa più. Potrebbe riprovarci, cercando talenti e sensibilità. Intanto, impariamo da Valentina Cortese, bella e gentile, ma con le unghie affilate quando serviva. In un mondo di manichini.