Timbuktu: recensione in anteprima del film di Abderrahmane Sissako
Festival di Cannes 2014: Abderrahmane Sissako racconta la vita in un villaggio dove vige il fondamentalismo religioso in modo rigoroso e sorprendentemente ironico. Senza dimenticare mai la severità del tema. Timbuktu è un oggetto a suo modo strano, eppure semplice, lineare e pure toccante.
C’è chi potrebbe accusare Timbuktu di essere il solito film “del resto del mondo” perfetto per un festival. Però si sbaglierebbe di grosso, e cadrebbe negli stereotipi che in realtà Abderrahmane Sissako evita con una certa abilità. Perché il nuovo lavoro del regista della Mauritania è innanzitutto un film sentitissimo e importante, a suo modo persino un po’ toccante.
Siamo ovviamente a Timbuktu, città nelle mani di un gruppo di fondamentalisti islamici che sparge il terrore e ogni tipo di divieto. Gli estremisti proibiscono la musica, il fumo, il calcio, e impongono alle donne di coprirsi il più possibile, anche con calze e guanti. Kidane ha deciso di spostarsi con la famiglia e i suoi animali fuori dalla città, vivendo in pace sulle sponde del fiume Niger.
La moglie e la figlia lo adorano, e lui adora loro. Adora anche Issan, un giovane bambino che lo aiuta a pascolare le vacche ed è particolarmente affezionato ad una di loro (chiamata ironicamente GPS). Un giorno però GPS si perde, il ragazzino la cerca e la ritrova nel fiume, impigliata nella rete di un pescatore di nome Amadou che senza pietà la uccide davanti ai suoi occhi. A questo punto Kidane vuole fare chiarezza, ma la situazione gli sfugge di mano…
Raccontata così la trama del film sembra incentrata su un unico personaggio. Non è così, anche perché il titolo dell’opera non è messo a caso. A suo modo Timbuktu è un racconto “corale”, che tuttavia non cerca mai di studiare troppo le psicologie dei personaggi, non essendo quello il suo fine. Sissako vuole invece raccontare delle persone in una fetta di mondo colonizzata e forzata a (non) vivere secondo regole ferree.
La cosa più sorprendente di Timbuktu è la sua ironia. Non usata a mo’ di sfottò e facile denuncia dell’idiozia del fondamentalismo e del terrore imposto, tutt’altro. Pare quasi che, in modo molto rigoroso e quasi “chirurgico”, Sissako sfrutti una messinscena semplicissima e ordinata per far scaturire il grottesco delle situazioni da sé. Un approccio che potrebbe quasi ricordare quello della Hausner in Lourdes, con tutte le moltissime differenze del caso.
In questa “terra dell’Islam”, come la chiamano di continuo i jihadisti, c’è innanzitutto un problema di linguaggio. Tutti fanno fatica a capirsi con tutti: colpa di un miscuglio di lingue e dialetti che creano un cortocircuito continuo tra i vari personaggi, tutti lontani e distanti gli uni dagli altri. La cosa ancora più ironica è che persino i jihadisti spesso fanno fatica a capirsi tra di loro, soprattutto quando devono parlare in arabo e inglese!
Ne esce fuori un film che ha forse qualche difetto di ritmo, soprattutto nella parte centrale, e qualche lieve naïveté, ma in cui predominano momenti decisamente potenti e molto umani. Non perde mai di vista la severità della storia, Sissako, anche quando sembra troppo leggero. Globalmente questo è un oggetto a suo modo strano, visto lo humour di molte scene, ed è comunque allo stesso tempo un film limpido e diretto nel suo messaggio e nella sua confezione.
Confezione che ci dice molto sul gusto per le inquadrature del regista (pazzesco il campo lunghissimo che si vede subito dopo la fine della clip che potete vedere qui sopra), e che tra l’altro può vantare una fotografia pulitissima e delle musiche originali di Amine Bouhafa, utilizzate persino in modo poco scontato. Con in più almeno tre o quattro scene che restano impresse, prime fra tutte la shockante lapidazione ed una “antonioniana” (ma più ironica e “leggera”) partita a calcio… senza palla!
Voto di Gabriele: 7
Voto di Antonio: 6.5
Timbuktu (Francia/Mauritania 2014, 97′ drammatico) di Abderrahmane Sissako; con Ibrahim Ahmed (aka Pino), Abel Jafri, Hichem Yacoubi, Toulou Kiki, Kettly Noël.