Cannes 2014, sabato 24 maggio: ultimo giorno di Festival, è tempo di previsioni e aspettative
Festival di Cannes 2014: a poche ore dalla cerimonia di chiusura del Festival proviamo a fare un rapido punto della situazione su i film che verranno premiati nonché su quelli che speriamo vengano premiati
È tempo di bilanci, cari lettori. Manca poco alla chiusura dei battenti anche per quest’anno, ed un comprensibile cenno di malinconia è possibile scorgerlo. Tuttavia manca il rush finale, quello alla conclusione del quale scopriremo chi sono i premiati di questa edizione.
La nostra, nel corso di quasi due intense settimane, l’abbiamo detta. Attraverso gli aggiornamenti del diario che state leggendo in questo momento, ma soprattutto mediante le nostre recensioni. Chi ci ha seguito con assiduità conosce grossomodo quali sono stati i nostri preferiti, quali film ci hanno colpito di più in un senso o nell’altro. Tuttavia anche noi siamo rimasti spiazzati nel dover stilare le due liste che seguono, perché in certi casi gli equilibri non sono mai facili da mantenere.
Ma ci abbiamo provato, e onde evitare che le nostre indoli prevalessero, abbiamo stilato ben due palmares. Nel primo tentiamo (timidamente a dire il vero) delle previsioni, basandoci sul buzz che circola per Cannes e dintorni (la rete), sulle sensazioni di questi giorni e forse pure un po’ su quel briciolo di intuito che ci ritroviamo. Nel secondo, beh… nel secondo ci sbizzarriamo e proponiamo ciò che per ciascuno di noi sarebbe la giustizia fatta a premi per questa edizione 2014.
Non è ancora tempo, dunque, di salutarsi. Ci aspetta ancora un’intensa giornata, ma soprattutto una serata durante la quale seguiremo in diretta la premiazione a questo indirizzo. Facciamo per le 19, ora d’inizio della cerimonia di chiusura. Ci vediamo lì.
Previsioni
Antonio
Premio della Giuria: Le meraviglie
Migliore sceneggiatura: Sils Maria
Migliore attrice: Marion Cotillard
Miglior attore: Timothy Spall
Migliore regia: Xavier Dolan
Gran Premio della Giuria: Adieu Au Langage
Palma d’Oro: Winter Sleep
Gabriele
Premio della Giuria: Timbuktu
Migliore sceneggiatura: Leviathan
Migliore attrice: Marion Cotillard
Miglior attore: Timothy Spall
Migliore regia: Xavier Dolan
Gran Premio della Giuria: Adieu Au Langage
Palma d’Oro: Winter Sleep
Preferenze
Antonio
Premio della Giuria: Adieu Au Langage
Migliore sceneggiatura: Winter Sleep
Migliore attrice: Marion Cotillard
Miglior attore: Timothy Spall
Migliore regia: Andrei Zvyagintsev
Gran Premio della Giuria: The Homesman
Palma d’Oro: Mommy
Gabriele
Premio della Giuria: Sils Maria
Migliore sceneggiatura: Foxcatcher
Migliore attrice: Marion Cotillard
Miglior attore: Timothy Spall
Migliore regia: Bertand Bonello
Gran Premio della Giuria: Maps to the Stars ex-aequo Adieu Au Langage
Palma d’Oro: Mommy
23 maggio: Sils Maria e Leviathan chiudono il concorso, aperte le scommesse sui vincitori
di Gabriele Capolino
Meno due. E per la stampa meno uno. Probabile pure che, mentre starete leggendo queste righe, la stampa abbia anche già visto l’ultimo film in concorso di questo 67. Festival di Cannes. Ieri sera infatti c’è stata l’anteprima stampa del russo Leviathan di Andrey Zvyagintsev, che avrà oggi la prima di gala alle 22. Stamattina invece c’è la proiezione stampa di Sils Maria di Olivier Assayas, che sarà presentato al Lumiere alle 19.00.
Manca insomma pochissimo per scoprire chi sarà la Palma d’oro 2014. E, avendo visto Leviathan da poche ore – ma senza aver ancora visto il film di Assayas – possiamo dire che in questo momento ci sembra una corsa a tre: tra Leviathan stesso, Mommy di Xavier Dolan (che fonti vogliono abbia ricevuto una standing ovation superiore ai 15 minuti al Lumiere) e Winter Sleep di Nuri Bilge Ceylan.
Deux Jours, Une Nuit sta accanto a loro, ma una terza Palma ai Dardenne appare improbabile visto che mi sembra che Marion Cotillard abbia il premio come miglior attrice in tasca, ma mai dire mai. Ci torneremo domani dopo averci ragionato meglio e dopo aver capito se Sils Maria può portarsi a casa qualcosa o meno.
Due parole su Leviathan, in attesa della recensione: è un film mastodontico e gigantesco, aggettivi scritti nell’accezione di “titanico”. Lo è sin dalle prime inquadrature in cui si fondono le onde violente del mare che sbattono contro gli scogli e una potentissima musica alla Philip Glass. Quel che viene dopo ha dalla sua delle sorpresine: la prima parte, ad esempio, è ricca di ironia e molta, molta vodka.
Aleggia lo spirito del compianto Balabanov in Leviathan, in cui si ride e si beve un sacco. Poi si cambia tono e il film diventa una sorta di Twin Peaks, un investigativo senza speranza, senza redenzione e senza Dio. Efficace nella costruzione e con una regia a tratti straordinaria (quegli esterni, quei movimenti di macchina, quella sicurezza…), il film pare restare un po’ distante rispetto alle potenzialità perché è forse più semplice di quel che si pensava.
E le metafore o sono molto ovvie (la carcassa di balena che raffigura la Russia) o spiattellate un po’ in faccia allo spettatore (il libro di Giobbe che è la fonte principale della trama). Comunque un lavoro che si difende benissimo da solo, che bisogna digerire (è un po’ il Winter Sleep russo), e che domani sapremo raccontarvi meglio. Così come potremo parlarvi meglio di due opere viste nell’Un Certain Regard: l’opera prima inglese Snow in Paradise e Incompresa di Asia Argento.
Il primo si è rivelata una delusione cocente, soprattutto alla luce del buzz che si portava già alle spalle prima di sbarcare sulla Croisette. Il secondo farà molto parlare, ma è molto meno “pazzo” di quel che è lecito pensare. Sono però due titoli diversissimi e che dicono molto di una selezione UCR che è stata capace di regalare eterogeneità di stili e intenzioni, al di là del successo qualitativo (i due titoli più apprezzati mi sembrano Jauja e Turist).
A proposito di Un Certain Regard: oggi ci sarà la cerimonia di premiazione. Domani invece seguiremo la cerimonia di chiusura della selezione ufficiale in diretta, con l’assegnazione della Palma d’oro e degli altri premi. Domani mattina troverete l’ultimo aggiornamento di questo diario con le nostre previsioni e i nostri palmares personali. Stay tuned…
@POlistTV hahahaha
— Xavier Dolan (@XDolan) May 22, 2014
22 maggio: Godard e Dolan, tra passato presente e futuro in salsa francofona
di Antonio Maria Abate
Giornata schizofrenica quella di ieri. Cominciata in maniera nient’affatto esaltante, abbiamo assistito sotto ai nostri occhi ad una evoluzione tangibile. In mattinata la prima proiezione è stata quella di The Search, che guarda caso è anche il peggior film del concorso. Ne ho parlato più diffusamente in sede di recensione, alla quale prontamente rimando. Ma già qui c’è chi, tra i detrattori di The Artist della prima ora, non ha mancato di far pesare un tonfo così clamoroso, col più classico dei «che vi dicevo io?», concluso da «Hazanavicius è stato meno che un fuoco di paglia». Ma passiamo avanti.
Nel pomeriggio tocca finalmente a Jean-Luc Godard, in un Grand Théâtre Lumière insolitamente gremito, quando fuori la fila si estende come mai quest’anno. Che dire di Audieu Au Langage 3D? Godard crede profondamente nel potere delle immagini, in ogni loro forma, ma è altrettanto consapevole del passaggio epocale che il cinema, e l’uomo con lui, sta attraversando. Non si tratta tanto di valutare questo film, quanto di prendere atto della sua esistenza. A 83 anni il regista francese sta ancora lì a giocare con la macchina da presa, esibendo la sua solita poetica, così astrusa ma al tempo stesso foriera anche stavolta di provocazioni notevolissime. Ed una cosa va ammessa: pochi, o magari nessuno, ad oggi possono permettersi certe cose.
Vero è, al tempo stesso, che chi parla di film fresco, addirittura inedito, dovrebbe fare un passo indietro ed ammettere che certo tipo di sperimentazione non ha nulla di nuovo: tutto parte da incipit di almeno cinquant’anni, solo che un cineasta del calibro di Godard sa come servirsi di un “metodo” per soffermarsi su ciò che riguarda l’epoca che stiamo attraversando. Da qui il 3D (già testato in The Three Disasters, ma qui spinto più in là per via delle dissolvenze: coprendo un occhio si vede un’immagine, mentre coprendo l’altro si vede l’altra, aggiungendo al cinema un grado, seppur minimo, di interattività col film), che se fino a poco tempo fa l’avessimo accostato ad uno a caso tra gli esponenti della Nouvelle Vague non avremmo nemmeno colto l’ironia, l’attenzione incentrata ad un contesto drogato di immagini, saturo all’inverosimile, mentre l’uomo mediamente diventa sempre più distratto e dunque incapace di metabolizzare il tutto. E Godard sembra domandarsi anche questo: che fine fa una persona investita da una quantità di immagini così esponenziale senza riuscire, né a conti fatti potere, metabolizzarle, discernere il più possibile? E quali le ripercussioni sulla società?
Una sfida al cinema, chiaro, perché il linguaggio di cui al titolo non si riferisce ad altro; ma una sfida per l’uomo tout court, che dinanzi a questo fenomeno, sempre più diffuso ed incalzante, si gioca ogni cosa. Con Audieu Au Langage Godard sottopone tutta l’urgenza possibile circa il confrontarsi con questo processo oramai irreversibile dunque inarrestabile. E la risposta è che oramai siamo in ballo, ergo tocca imparare bene le coreografie.
Dopo lo shock Godard, tocca ad uno dei film più attesi del Festival, ossia Mommy (recensione). Un Dolan che al quarto tentativo approda alla sezione maggiore, con un film che sinceramente più riuscito, quantunque tutt’altro che imperfetto, non lo si poteva immaginare. Una regia fresca, originale, elegante, e a questo punto pure matura. Quanto basta, perché i margini sembrano esserci ancora. Un progetto ben diverso rispetto a Tom à la ferme, di gran lunga meno ancorato ai generi, più libero. Ci sono cose in Mommy che lasciano stesi, piccole o grandi misure che ci informano di un autore su cui effettivamente non si può più glissare. Perché Dolan è uno che sperimenta, che si lascia trascinare dalle proprie intuizioni, ma che soprattutto, alla sua età, si trova già nella condizione, indispensabile per il suo modo di fare di cinema, di seguire i propri progetti dall’inizio alla fine, occupandosi della scrittura, della messa in scena e poi del montaggio. È il cineasta 2.0, quello che ancora oggi non può fare a meno di essere immerso all’interno di una macchina produttiva, ma che già ha cominciato a staccarsi da quella visione tradizionale che vede il cinema come una lavoro esclusivamente di squadra, e numerosa pure.
Entrambi, Godard e Dolan, passato, presente e forse anche futuro di un mezzo che sta attraversando una fase di transizione, dalla quale è difficile dire come ne uscirà. Senza catastrofismi di sorta. D’altronde Godard stesso ci va cauto, senza preannunciare chissà quale disfatta; solo che, a processo avanzato, toccherà chiedersi se quello che ci troviamo tra le mani sia ancora cinema. Da parte di Dolan la risposta è senz’altro affermativa, perché ciò che fa il giovane regista canadese si nutre di questo, nasce da questo e sta o cade su questo.
Passiamo alla giornata odierna. In concorso oramai ne mancano tre, due dei quali ce li faremo fuori in giornata. Il primo è Jimmy’s Hall di Ken Loach, mentre in serata è il turno del film che può ancora dire la sua più degli altri in ottica premi (anche di rilievo). Alludiamo a Leviathan di Andrey Zvyagintsev, da cui almeno il sottoscritto, sebbene non sia l’unico, si aspetta grandi cose. In giornata vedremo anche di recuperare anzitutto Incompresa di Asia Argento, e poi anche Snow in Paradise. Nel frattempo restate sintonizzati su queste pagine, dato che in queste ore salteranno fuori altre recensioni. Così, giusto per farvelo sapere.
21 maggio: Lost River è una follia, i Dardenne prenotano un premio e Godard scende in campo
di Gabriele Capolino
Lo si dice ogni volta che partecipano al festival, ovvero con ogni loro film. Ma come fai a non dare almeno un premio ai Dardenne? Al di là di tutto sono sinonimo di qualità, come ribisco nella recensione. Volendo giocare alle previsioni – mancano cinque film in concorso, e oggi ne vedremo addirittura tre – si candidano per la sceneggiatura, per la prova della Cotillard (vincerà finalmente?) e per i premi della giuria. O sarà terza Palma d’oro? Non sarebbe scandaloso.
Come non c’è nulla di scandaloso, ora lo abbiamo capito, nel trovare Coming Home fuori concorso. Il nuovo film di Zhang Yimou, mi si perdoni la leggerezza, è una lagna. Storia famigliare e di malattia ambientata durante la Rivoluzione Culturale, praticamente per la maggior parte fra le mura di una casa, Coming Home vorrebbe avere il cuore del mélo e la patina dell’affresco storico. Ha un po’ dell’uno e dell’altro, senza convizione.
Azzecca il finale, vero, che è davvero dolce e toccante, ma per arrivarci Zhang è allo stesso tempo chirurgico nel voler calibrare le emozioni e paradossalmente piattino nell’esecuzione. Molti parleranno di un ritorno in forma per il regista, visto che è anni che non gira un film davvero acclamato dalla critica e di successo: però ci si chiede il perché dovrebbe essere effettivamente ritornato in forma. Fa piacere rivedere Gong Li assieme al regista, e speriamo che facciano assieme un altro film: più bello.
Passiamo poi a quello che è stato a tutti gli effetti l’evento di ieri: Lost River, opera prima diretta da Ryan Gosling e selezionata in Un Certain Regard. Le due proiezioni del film sono state letteralmente prese d’assalto, forse più per incrociare Ryan Gosling e il cast che per la pellicola in sé. Che in poco tempo ha ottenuto un buzz piuttosto negativo, anche se ha già trovato i suoi fan.
Storia di una madre in cerca di soldi per salvare la propria casa dove vive coi suoi due figli, si tratta di un incubo allucinato in cui il regista abbonda di citazioni e omaggi. Ci sono Harmony Korine (Gummo), David Lynch (Velluto Blu e altri), ovviamente Nicolas Winding Refn (e di conseguenza Alejandro Jodorowsky), southern indie e molto horror italiani anni 80 alla Mario Bava e Dario Argento. In una confezione coloratissima e dalla musica in cui abbonda il sintetizzatore.
Il film è una follia, chiariamolo subito. È un’opera prima e si vede. Si può bollare come interessante pasticcio? Forse. Di sicuro del talento c’è, e non è forse un totale disastro. La cosa curiosa è che, forse per l’acculumarsi di talmente tanta roba colori suoni intuizioni assurdità (e chicche, come la presenza di Barbara Steele), il film non annoia mai. Strano, visto che di pasticci come questi ci si stanca dopo mezz’ora. Ne riparleremo meglio nella nostra recensione.
Segnatevi infine questo titolo: Whiplash. Presentato nella Quinzaine, è il film vincitore dell’ultimo Sundance ed è semplicemente pazzesco. Protagonista del film è il diciannovenne Andrew, che fa il batterista e studia al conservatorio di Manhattan. Viene notato da Terence Fletcher, burbero e esigentissimo professore che dirige una delle migliori band in circolazione. Con lui inizia un rapporto studente-professore tra sudore, richieste assurde, prove infinite, vesciche sulla mani, sangue e tanta passione per la musica jazz.
Whiplash è qualcosa di estremamente travolgente. Finalmente il talento di Damien Chazelle esce fuori in tutta la sua furia, e la sua opera seconda è un vero trionfo. Il regista aveva girato nel 2009 l’interessante ma acerbo Guy and Madeline on a Park Bench, che ruotava sempre attorno al jazz, e ha scritto la sconclusionata sceneggiatura de Il Ricatto, che ruotava attorno alla musica classica e al pianoforte.
Qui si supera alla grande e dà prova di consapevolezza e talento vero. Lo aiutano anche i due straordinari protagonisti, Miles Teller e J.K. Simmons, continuamente in lotta per amore di un risultato perfetto. Incredibile il montaggio di Tom Cross, che deve aver lavorato come un pazzo per ottenere un ritmo così concitato, pressante, travolgente, elegantissimo e mai fracassone.
La giornata di oggi prevede due film in concorso: The Search, il war movie di Michel Hazanavicius post The Artist, e soprattutto Adieu Au Langage, il film di Jean-Luc Godard. Il regista ovviamente ha fatto sapere che non ci sarà, e pare abbia mandato al Festival un corto di 8 minuti in cui spiega le sue ragioni. Voci dicono che potrebbe essere proiettato prima del film: vi terremo aggiornati. Siamo infine impazienti per Mommy di Xavier Dolan, che verrà già proiettato alla stampa in serata.
20 maggio: l’asfissiante Foxcatcher è da applausi, tocca ai fratelli Dardenne
di Antonio Maria Abate
Giornata fredda e piovosa qui a Cannes. La peggiore da quando vi abbiamo messo piede esattamente una settimana fa. Il tabellone va sempre più accorciandosi, imperterrito, delineando con maggiore chiarezza la situazione. Si fa per dire. Sì perché poche volte come in questa edizione sembra essere tutto così in bilico.
Un giornalista canadese, durante una delle tante code, mi racconta nostalgico i tempi in cui i fischi si sentivano fino a Nizza, così come le ovazioni, se del caso. Forse che il pubblico del Festival si sia addolcito negli anni? Può darsi. Il punto è che quasi tutti i film sono stati applauditi, chi più chi meno. Ma nessuna vera e propria ovazione, se non nelle sezioni collaterali. È stato questo il caso di Cold in July, prodotto ad un uso e consumo di certi feticisti di tutto ciò che attiene agli anni ’80. Un film molto divertente, a suo modo colto per via delle tante, troppe citazioni e debiti nei confronti di questo e di quest’altro. La colonna sonora sembra registrata da Carpenter, mentre l’ottimo Don Johnson è lì a testimoniare che sì, quel periodo è esistito davvero e c’è chi se l’è spassata alla grande.
Tuttavia il concorso resta inevitabilmente in primo piano. Oggi è uscito fuori quello che in giro alcuni vorrebbero come Palma d’Oro, cosa che oramai si è detta di un bel po’ di film, segno che ancora dobbiamo assistere al vero game change (ammesso che arrivi). Parliamo di Foxcatcher, inquietante lavoro di Bennett Miller. La prima proiezione alla stampa cade a fagiolo in una giornata così cupa come questa, visto che l’atmosfera di Foxcatcher è di quelle che non ti lasciano respirare un granché bene.
Ed infine tocca a lei, Naomi Kawase, che con Still the Water firma il suo film più riuscito. Sembrano passati decenni dalla Kawase già di Nanayomachi, opera che in fondo la sdoganò. Era il 2008. Ma a Cannes la Kawase è di casa dal 1997, quando vinse la Camera d’Or per Sukazu. Dalla proiezione siamo usciti soddisfatti e infreddoliti per via del clima, ma soprattutto con la sensazione, al di là dei giudizi di valore, di aver assistito al film più poetico in concorso. Un breve cenno su amore, morte e redenzione. Qualcosa su cui vale la pena attardarsi in sede di recensione.
In giornata, nell’ordine, in concorso i Dardenne con Deux Jours, Une Nuit, Zhang Yimou fuori concorso con Gui Lai, nonché il debutto dietro la macchina da presa di Ryan Gosling con Lost River ed il vincitore dell’ultimo Sundance Whiplash.
19 maggio: Maps to the Stars divide la stampa, Turist stupisce tutti
di Gabriele Capolino
E chi se lo immaginava che Maps to the Stars avrebbe diviso la stampa sulla Croisette? Tutti, ovviamente. Da almeno tre film il regista canadese non è più il cocco di tutti i giornalisti all’unanimità, e la spiegazione è semplice: dopo aver raggiunto un livello di perfezione assoluta con il dittico A History of Violence – La Promessa dell’Assassino, il regista ha cambiato pelle tre volte con A Dangerous Method, Cosmopolis e ora con Maps to the Stars.
Come se non volesse smettere di sperimentare mai, Cronenberg questa volta si dà alla satira. Il copione di Maps to the Stars è quello sicuramente più comico che il regista abbia mai girato. Il Telegraph gli dà 5 stelle su 5, Variety non apprezza, il Guardian gli dà 4 stelle su 5 e l’Hollywood Reporte ha le sue riserve, Indiewire apprezza parecchio con un B+ mentre gli spagnoli si dividono. La stampa italiana per ora sembra invece averlo bocciato in massa.
Il fratello scemo di Mulholland Drive? Un cugino di The Canyons? Oppure una satira vecchissima e ormai sorpassata sul mondo di Hollywood? Per chi scrive nessuna delle tre: mi pare ovvio che le premesse del film di Cronenberg siano completamente diverse da quelle del capolavoro di Lynch; mi sembra altrettanto ovvio che il metro di paragone col film di Schrader venga usato solo come facile insulto.
Personalmente poi trovo che la satira dei costumi e delle abitudini dello star system sia solo il punto di partenza del discorso di Maps to the Stars. Che invece vuole ragionare sul cinema contemporaneo (hollywoodiano, ma forse non solo) come reiterazione all’infinito della stessa idea. Durante lo svolgersi del film i destini dei diversi personaggi si collegano l’un l’altro, tra incendi e incesto: una vera e propria mappatura delle star. Però forse la vita non dovrebbe essere così, altrimenti si entra in un loop popolato da impasse continui e… fantasmi (del passato)!
Il personaggio più interessante e a tutto tondo del film è quello interpretato da una grande Julianne Moore, attrice che inizia ad avere una certa età e che vuole a tutti i costi una parte in un film. Si tratta di un progetto che aveva coltivato lei qualche anno fa, ed è il remake di un film interpretato anni prima dalla madre, scomparsa a causa di un incendio. Segnatevi poi un concetto chiave: libertà. Il film esce nelle nostre sale già questo giovedì 22 maggio. Giudicate voi.
In concorso abbiamo poi visto anche il bellissimo The Homesman, opera seconda diretta da Tommy Lee Jones. Si tratta di un western stranissimo, per certi versi atipico e un po’ sgangherato, oscuro e ironico, malinconico ma mai pedante o strappalacrime, anzi. Contraddittorio, forse, e per questo molto, molto affascinante e riuscito. Perché anche nell’accostare una risata e un piccolo shock Tommy Lee Jones si rivela ancora una volta regista parecchio consapevole. Ci dice anche qualcosa di forte su una terra pazza e cattiva.
Segnatevi in agenda poi altri due titoli da non perdere. Il primo è Force Majeure (Turist), il quarto lavoro dello svedese Ruben Östlund che è forse ad oggi il colpo di fulmine del sottoscritto (in concorso all’Un Certain Regard e già recensito). Il secondo è It Follows, ed è l’opera seconda dell’americano David Robert Mitchell, che nel 2010 ci aveva deliziato con The Myth of the American Sleepover. Questo è però un horror: e che horror! Pauroso, intelligentissimo, con una bella confezione e una musica à la Carpenter. Influenze ’80 ovunque, ma è un oggetto che non si è mai visto prima.
Oggi in concorso assieme a Cronenberg si vedrà anche Foxcatcher di Bennett Miller, che doveva aprire l’AFI Fest 2013 ed era virtualmente in corsa per le nomination agli Oscar 2014: poi la Sony Pictures Classics ha deciso di farlo slittare a quest’anno. La Quinzaine ci offre direttamente dal Sundance il thriller Cold in July, mentre l’Un Certain Regard presenta il chiacchierato film greco Xenia. La stampa potrà poi vedere un altro film del concorso, Still the Water di Naomi Kawase.
Segnalo infine che allo Short Film Corner viene presentato un corto italiano intitolato Nora. Diretto da Giustino De Michele, e interpretato da Cristina Toccafondi e Nunzio Olivieri, si tratta di un curioso ibrido formale che lavora di flashback e lunghe riprese in soggettiva per narrare una storia d’amore triste e malinconica. E che nella parte finale si prende pure i suoi rischi estetici e narrativi. In bocca al lupo a tutto il team.
P.S.: per quel che riguarda la nostra campagna per far arrivare Xavier Dolan a Cannes… beh, vi segnaliamo che è già sulla Croisette e si fa scattare foto assieme ad altri registi canadesi! 😉
Three great directors! #Cannes2014 #cannesada #MapsToTheStars @_juliannemoore @johncusack @SarahGadon @XDolan pic.twitter.com/wCXTQXV4iI
— Martin Katz (@martinfkatz) May 18, 2014
18 maggio: Le Meraviglie potrebbe essere da Palma d’oro
di Antonio Maria Abate
Mentiremmo se dicessimo che ce lo aspettavamo. Ed invece fra una settimana esatta potrebbero esserci sorprese, allorché toccherà alla Giuria comunicare la sua Palma d’Oro. Ieri è stato il giorno della proiezione stampa di Le meraviglie, film di una Alice Rohrwacher che si è presentata a questo Festival quasi da outsider, quando ad oggi pare essere la favorita qui sulla Croisette. Gli americani la stanno incensando, e se dipendesse da loro l’avrebbero già messa sull’aereo con la Palma dentro il borsone da palestra. Gli italiani, beh, ad occhio ci sembra che la maggior parte sia rimasta tiepida, se non addirittura contrariata. C’est la vie.
Noi, al contrario, abbiamo apprezzato. Per quanto riguarda chi scrive Le meraviglie non è il preferito tra quelli in concorso visti sino ad ora, anche perché da qualche giorno circolano già un certo Mr. Turner ed il machete Winter Sleep. Tuttavia il film della Rohrwacher è degno pezzo di cinema, con un’idea precisa che la giovane delle due sorelle Rohrwacher segue sino alla fine, quando chiude appena in tempo per non strafare. Una storia gradevole, semplice come in fondo lo sono i suoi personaggi. Si riscontrano alcune idee davvero notevoli, come una fotografia decisamente ispirata e l’innesto delle due bimbe piccole, che fanno pendere l’ago delle bilancia verso una dolcezza che in Le meraviglie non è mai stucchevole.
In mattinata c’era stato Saint Laurent (recensione). Niente da fare, il celeberrimo stilista non ha ancora trovato una collocazione cinematografica degna della caratura del suo personaggio. E dire che solo solo quest’anno ci hanno provato in due, prima Jalil Lespert con il suo Yves Saint Laurent, poi Bertand Bonello che al Festival porta un film modulato su frequenze ben diverse rispetto al suo diretto “rivale”, ma che in realtà si risolve in anch’esso in una generale piattezza. In Saint Laurent le cose vanno discretamente quando si scorge nitidamente Bonello, quindi nell’ultimo quarto d’ora circa; quando sulla scena, invece, c’è il suo Yves tutto è molto aleatorio, a tratti ridondante e sinceramente vuoto. Nulla può la buona prova di Ulliel, schiacciato dalla difficoltà di cui soffre il film nel coinvolgerci. In più lascia l’amaro in bocca che al secondo biopic nessuno abbia ritenuto opportuno soffermarsi con più passione sul Saint Laurent artista: in tal senso meglio le allusioni del film di Bonello rispetto a quello di Lespert, ma la verità è che certe valutazioni lasciano il tempo che trovano in fin dei conti.
The Rover (recensione) è invece uno dei primi tre film di questa edizione fino ad ora. Da Michôd ci si aspettava parecchio ed infatti non ha deluso. Ma vale per noi. C’è chi non riesce a passar sopra una certa propensione, sottile ma presente, da parte del regista australiano di girare un western post-apocalittico un po’ arty. Come scritto in sede di recensione, però, questo non è Only God Forgives, e se con Refn di scuse ce n’erano, qui le attenuanti sono poche. Scontato chiedersi cosa avrebbe potuto fare un film così in concorso, ma sappiamo che a scervellarsi su certe cose è più il tempo perso che altro.
The Disappearance of Eleanor Rigby è un film formato Jessica Chastain, che tra l’altro ne è anche la produttrice oltre che la protagonista. Lei è Eleanor, lei la donna fragile ma forte che di solito finisce sempre col rappresentare sul grande schermo. The Tree of Life rimane lassù, troppo in alto, ma d’ora in avanti il film di Ned Benson diventa un termine di paragone serio in funzione dei prossimi film interpretati dalla meravigliosa Jessica. Tutt’al più siamo curiosi di vedere questo progetto così per come è stato concepito, ossia in due parti, anche attaccate. La versione per Cannes è infatti una terza, rimontata, che ha decisamente un suo perché, per carità, ma che stuzzica ancora di più la nostra curiosità su ciò che il progetto era da principio anziché dissuaderla.
Per oggi vi facciamo solo due nomi: Tommy Lee Jones e David Cronenberg. The Homesman e Maps to the Stars per quanto riguarda il sottoscritto sono fra i più attesi da che si ha memoria del tabellone ufficiale, perciò non sorprenda che questa domenica rappresenti una sorta di giro di boa anticipato: da oggi certi equilibri potrebbero irrimediabilmente saltare per il sottoscritto, sia in un senso che nell’altro. Qualcuno tra quelli che hanno già visto Maps to the Stars dichiara che è uno spasso, mentre The Homesman dovrà davvero essere un pessimo film per ribaltare le piacevolissime impressioni lasciate dal trailer. Ci torneremo, questo è poco ma sicuro.
17 maggio: delusione Egoyan, Winter Sleep mette alla prova
di Antonio Maria Abate
Venerdì 16 cominciato non nel migliore dei modi. La prima proiezione per la stampa è stata quella di The Captive (recensione), del regista Atom Egoyan. Possiamo dirlo? La delusione più cocente del Festival. Sì perché se riguardo a Grace di Monaco le sensazioni non erano particolarmente propizie, dal thrillerone di Egoyan ci si aspettava francamente qualcosa di più. Qualcosa che è mancato, per certi versi, clamorosamente. The Captive riesce ad essere sorprendentemente fiacco, basico nell’accezione deteriore del termine. E un po’ in tutta onestà ci spiace.
Per fortuna che al secondo tentativo le cose siano andate decisamente meglio. Dragon Trainer 2 (recensione) era il blockbuster di quest’anno, il migliore tra quelli proposti a Cannes da anni a questa parte. Frenetico, divertente, dolce. Meno ricco rispetto ad altri progetti d’animazione di uscite strampalate, ma non per questo meno capace di strappare un sorriso sincero oppure toccare con qualche scena meno scanzonata al momento giusto. Grand Théâtre Lumière non esattamente stracolmo ma che in ogni caso ha risposto bene, sia durante che dopo, con una sentita ovazione.
Alle 15 è toccato ad uno dei seri candidati alla Palma d’Oro alla vigilia (non per chi scrive). Winter Sleep è il film che un incute un certo timore reverenziale, un po’ per la durata (3 ore e 16 minuti), un po’ alla luce di un regista non esattamente conciliante. Qui Ceylan appronta uno studio comportamentale incentrato essenzialmente su una lunga serie di conversazioni: in Winter Sleep si parla tanto, per alcuni troppo. Quando poi, e per un bel po’, i protagonisti cominciano a vomitarsi cattiverie a vicenda il clima effettivamente si fa pesante. Tuttavia non si può glissare su quest’ultima fatica del regista turco, diversa dall’ultimo C’era una volta in Anatolia, ma non meno spietato. Non sarà da Palma d’Oro, ma difficilmente ce lo vediamo uscire a mani vuote dal Festival.
In serata terzo film in concorso della giornata ed uno dell’Un Certain Regard. Relatos Salvajes (Wild Tales) dell’argentino Daniel Szifron ha fatto sfaceli: un film allucinante, per la cui presenza va riconosciuto un certo coraggio ai selezionatori. Una satira nerissima, grottesca e senza peli sulla lingua, in cui Szifron si diverte a partorire le fattispecie più assurde, sebbene saldamente ancorate al vissuto della società a lui più vicina, ovvero quella argentina. Strutturato a episodi indipendenti ciascuno dall’altro, i migliori sono i primi e gli ultimi, con quelli di mezzo che più che altro faticano a reggere la lucida follia di quelli appena evocati.
Su Amour Fou i pareri in redazione non sono esattamente allineati. Gabriele l’ha trovato delizioso, adorando un cinema così avulso come quello della Hausner. Personalmente ho fatto fatica ad entrare a pieno nel merito del discorso, sebbene non tutto mi abbia lasciato tiepido. Diciamo che l’estrema asciuttezza della regista austriaca va inevitabilmente a pelle, perché il suo è un cinema essenziale ma al tempo stesso intelligente. Aspetto questo che finisce paradossalmente (ma nemmeno tanto) per rivoltarsi contro il film stesso, che ridotto all’osso com’è deve faticare il doppio per far passare certe cose. Ci concediamo del tempo per ragionarci sopra mentre a breve sarà disponibile la recensione.
Oggi giornata meno impegnativa. Tanto per cominciare è il debutto della Rohrwacher con il suo Le meraviglie, secondo film in concorso della giornata dopo il secondo biopic dell’anno su Saint Laurent, diretto stavolta Bertrand Bonello. Nel mezzo c’è spazio pure per l’Un Certain Regard con The Disappearance of Eleanor Rigby, che qui si presenta in un’unica soluzione per la prima volta, dopo che a Toronto furono essenzialmente mostrate le due parti (Him ed Her) insieme. Manco a dirlo, vi terremo aggiornati.
16 maggio: il concorso parte bene, ma il colpo di fulmine è Bande de Filles
di Gabriele Capolino
Abbiamo già avuto modo di dire che Timbuktu (qui la recensione) ci è parso un primo film niente male per iniziare il concorso del Festival di Cannes 2014. Andiamo oltre: la prima giornata competitiva al completo è stata niente male per quel che riguarda la corsa alla Palma d’oro, grazie al secondo film della competizione (in realtà è stato proiettato come gala per primo).
Parliamo di Mr. Turner (recensione), il biopic che Mike Leigh aveva in cantiere da anni sulla vita di William Turner. Si tratta di un film bellissimo: un biopic solido, girato splendidamente, fotografato con una maestria incredibile dal fido Dick Pope e musicato dall’altrettanto fido collaboratore di Leigh Gary Yershon. Mr. Turner poi vale il prezzo del biglietto anche solo per la scena d’apertura, che simula un quadro del primo Turner in maniera ovviamente cinematografica.
È un po’ troppo lungo, ovvero 150 minuti forse non tutti necessari, se non per l’intenzione del regista di confezionare uno slowburner che nella parte finale possa ripagare a livello emotivo. Così è: si viene enormemente ripagati. Mr. Turner è poi un biopic in cui il tempo si sente eccome: nel senso che passa, va avanti e colpisce tutto e tutti (quanto è presente, la morte…).
Leigh però non te lo fa pesare, usando con gentilezza e intelligenza pochi accorgimenti essenziali per sottolineare quanto siamo andati avanti nella storia rispetto all’inizio e quanto Turner sia sempre più ansioso e folle nella sua ricerca del “sublime”. Timothy Spall, fisico gonfio e sporco, tutto voce profonda e roca e grugniti continui, è ufficialmente il primo grande candidato alla Palma come miglior attore.
Abbiamo poi assistito alle aperture di altre tre sezioni di Cannes: l’Un Certain Regard, selezione ufficiale, con Party Girl (recensione); il concorso della Semaine de la Critique con Più Buio di Mezzanotte (recensione) di Sebastiano Riso; la Quinzaine des Réalisateurs con Bande de Filles (recensione) di Céline Sciamma. Il secondo è per ora il mio colpo di fulmine del festival, gli altri due sono invece delle delusioni.
Degli ultimi due ne ho parlato nelle recensioni singole dedicate. Due righe su Party Girl, che è girato a sei mani da Marie Amachoukeli, Claire Burger e Samuel Theis. Si tratta della storia di una donna che a circa 60 anni adora ancora vivere la vita notturna in un cabaret. Il personaggio è interpretato dalla stessa donna a cui è ispirato, madre fra l’altro di Theis. Il progetto è molto interessante, il risultato purtroppo un po’ meno.
La prima parte mi sembra noiosissima, mentre nella seconda certe tematiche vengono discretamente al pettine e si accende pure un barlume di emozione verso il finale. Globalmente la sensazione che ho avuto è quella di una calma piatta dovuta forse alla poca esperienza dei tre registi, che sono molto debitori di molto cinema indie americano. Però Party Girl pare soprattutto un corretto film di studenti di scuola di cinema.
Prima di passare al programma di oggi, vogliamo lanciare una campagna: aiutiamo Xavier Dolan, in concorso con Mommy, ad arrivare a Cannes dal Canada! Il giovanissimo regista aveva twittato che aveva perso il proprio passaporto ed era quindi impossibilitato a partire per la Croisette. Poi qualche minuto dopo ha twittato questo:
I finally found my passport. It was in the freezer.
— Xavier Dolan (@XDolan) May 15, 2014
Mumble. Che succederà? Ce la farà ora il nostro adorato Xavier a prendere un altro aereo e a partecipare alla proiezione di gala il 22 maggio? Al di là di tutto… certo che con i viaggi Dolan ha un po’ di sfiga: quando è arrivato al Lido per Tom à la ferme la compagnia aerea gli aveva perso i bagagli.
Programma di oggi. Due film ufficialmente in concorso: il nuovo thriller di Atom Egoyan, Captives, con Ryan Reynolds (è fondamentale che questo giro Egoyan faccia un buon film, dopo gli ultimi tonfi di critica), e Winter Sleep, il film di 196 minuti di Nuri Bilge Ceylan che per molti (compreso chi scrive) è il candidato numero 1 alla Palma d’oro.
Fuori concorso è il turno della Dreamworks e di Dragon Trainer 2, mentre in Un Certain Regard è il turno del nostro attesissimo Amour Fou, il film che Jessica Hausner ha diretto a 5 anni di distanza da quella folgorazione che fu Lourdes. La stampa potrà poi vedere un altro film in concorso: Relatos Salvajes dell’argentino Damián Szifron. Come faremo a sopravvivere domani? Augurateci buona fortuna, intanto…
15 maggio: Mike Leigh porta il suo Mr. Turner sulla Croisette
di Antonio Maria Abate
E la prima è andata. Giornata contenuta, quasi blanda oseremmo dire. Due film, di cui uno in concorso, prima del delirio che prenderà consistenza a ridosso del weekend. Un Festival che, sebbene oggi abbia fatto contenti un po’ tutti, mette in chiaro la solita regola: fate la fila!
Esatto, chiunque bazzichi da queste parti in questi giorni, fosse anche solo di passaggio, per semplice curiosità apprende di questa particolare forma d’ascetismo imposta dal Festival. Fare coda, aspettare, stazionare su una minuscola zolla in attesa del proprio turno (semmai arriverà) diviene parte essenziale dell’esperienza Cannes. Per fortuna ci sono anche i film, certo.
E poiché ieri accedere alle due proiezioni in programma non è stato un dono riservato a pochi, grossomodo tutti si sono fatti un’idea su Grace di Monaco e Timbuktu. Il primo, su cui ci siamo già ampiamente soffermati tra recensione e puntata precedente di questo diario, rappresenta l’ennesimo, ahinoi sfortunato tonfo di Nicole Kidman. Ci prova la bella Nicole, e con lei Tim Roth, passando per lo stesso Langella: ma nulla da fare proprio. Prodotto da TV ritoccato ed “abbellito” per un pubblico da sala che difficilmente, salvo le immancabili eccezioni (menomale che si sono, sempre e comunque), sarà disposto ad andare oltre una sorprendente piattezza che demolisce un po’ tutto ciò che le sta attorno. Sì, compresa qualche bella inquadratura e quel Miserere in chiusura che farà pure atmosfera ma che amplifica il senso di smarrimento dinanzi all’intera operazione. Poi.
Timbuktu, inutile dirlo, alla vigilia è stato un po’ snobbato. Se avete da ridire passate prima dal buon Thierry Fremaux, che all’annuncio della selezione ufficiale fu il primo a dimenticarsene. Scherzi a parte, il film del mauritano, unico africano in concorso, è un ritratto per certi aspetti intenso di una comunità dall’estensione indecifrabile. Per noi almeno. Un manipolo di personaggi che assurge al rango di collettività in virtù di un unico elemento: la fede. Certo, il discorso è più complesso. C’è chi fa la jihad e chi suo malgrado la subisce. A suo modo Sissako solleva questioni interessanti circa l’entità di una delle cosiddette religioni del libro; analisi, se così si può definire, però discontinua, forse volutamente al fine di caricare la molla al massimo per quelle due/tre scene che lasciano secchi. L’asino che passeggia in un’immaginaria area di rigore durante un’altrettanto immaginaria partita a pallone (immaginario anch’esso) ricorda certa ironia distaccata di un’Elia Suleiman, ad oggi fra i più capaci a portare certi toni in luoghi “periferici” del globo. L’estemporaneo stacco sulla duplice lapidazione impressiona, così come denota un certo stile la lunga sequenza in campo lunghissimo successiva ad un assassinio punito dalla legge locale. In sostanza il film funziona, se ne avverte il peso e condividiamo la scelta di sottoporlo in concorso.
Ed oggi? Ah oggi ci aspetta la prima vera giornata di Festival. Su tutti Mr. Turner, di cui è stato saggiamente diramato il primo trailer nel pomeriggio di ieri e che pare già un piccolo gioiellino. In giornata tocca pure al catanese Sebastiano Riso con il suo Più buio di mezzanotte, nonché all’atteso Bande de filles di una Céline Sciamma in odore di concorso fino a qualche tempo fa – ed invece la Sciamma apre la Quinzaine. Altra apertura ufficiale è quella di Party Girl, la cui proiezione inaugura l’Un Certain Regard di quest’anno. Vi basta? Fateci arrivare a fine giornata e ne riparliamo.
14 maggio: la stampa fischia il film d’apertura Grace di Monaco
di Gabriele Capolino
Ci sono film che sembrano destinati a diventare dei guilty pleasure. Non mi sembra sia il caso però di Grace di Monaco, che ha aperto il Festival di Cannes 2014 tra qualche sonoro fischio e qualche timido applauso (e gli applausi mi sono parsi più che altro una “reazione” alla freddissima reazione generale…). Credo più che altro che si tratti di un film sbagliato, girato male e “pensato” peggio, e credo sia pure il peggior film d’apertura che mi sia capitato di vedere in un festival da quando ne frequento.
Olivier Dahan torna al biopic a 7 anni di distanza da La Vie en Rose, e gira uno di quei pasticci che accumulano idee potenzialmente stimolanti a chicche ridicole e idee di regia insulse. L’idea di regia di Dahan sostanzialmente è quella di usare lunghi movimenti di macchina sinuosi (si veda il pianosequenza iniziale) alternati a primi e primissimi piani di Nicole Kidman, richiamando certo cinema classico degli anni 50.
Però questa ricerca “estetica” lascia innanzitutto perplessi, perché innanzitutto Dahan non è Todd Haynes: basterebbe l’orrida sequenza con Grace che guida spericolata in auto per confermarlo. Cercando un equilibrio nella forma, il regista perde poi di vista il tipo di film che vuole girare: biopic, mèlo, spy story, affresco storico e di un’epoca… Il risultato è un pasticcio di dimensioni enormi, in bilico costante tra riflessione seriosa (le tasse, il conflitto Francia-Monaco, la “prigionia” di Grace principessa vs. la passione per la recitazione di Grace attrice) e soap kitsch (compreso il discorso della vita come favola).
Con un’aggravante che fa male, molto male. Nicole Kidman è bravissima, riempie lo schermo coi suoi occhi (anche perché Dahan lo impone…), ed è sempre credibile nella sua recitazione affettuosa, dolorosa e sentita. Il problema è che non ti fa mai credere di star “guardando” Grace Kelly. Non credo sia un problema suo, e forse è inutile star qui a ribadire quanto Grace fosse unica. Ma per un biopic di 100 e passa minuti, la cosa fa pensare…
Presto sarà online la nostra recensione ufficiale. Domani invece troverete un nuovo aggiornamento con i commenti sul primo film in concorso, Timbuktu, e il programma della giornata.
13 maggio: il festival ai nastri di partenza
di Gabriele Capolino
Arrivati a Cannes veniamo accolti da uno spruzzo di pioggia e un po’ di vento. Presagio funesto? Qualche oretta dopo però spunta il sole. L’anno scorso poi ha piovuto un giorno sì e uno no, ed è stata un’edizione pazzesca. Vi direte: ma che siete impazziti? Ma no, stiamo solo facendo quel che fanno molti giornalisti che stanno qui sulla Croisette: raccontano i colori e il meteo fregandosene dei film.
Noi invece, che a Cannes ci andiamo per vederli, i film, e anche il più possibile, siamo qui con le stesse intenzioni degli altri anni: raccontarvi in diretta il meglio, il peggio, le sorprese e le delusioni di questa edizione del Festival di Cannes. Attraverso recensioni, commenti e un diario giornaliero a quattro mani che speriamo sia sempre di vostro gradimento (anche perché meno formale delle recensioni, ma speriamo non meno serio).
Domani si parte alle 19.15 con la cerimonia di apertura, a cui segue la proiezione di gala di Grace di Monaco alla presenza di Olivier Dahan, Nicole Kidman e il cast (ma pare che Weinstein non si farà vivo). La stampa lo potrà già vedere in mattinata, anche se voci fondate dicono che i giornalisti francesi abbiano avuto delle proiezioni anticipate di cortesia, così come per altri film del concorso ufficiale. Vige comunque l’embargo, certo…
La stampa in serata potrà vedere già anche il primo film in corsa per la Palma d’oro, ossia Timbuktu di Abderrahmane Sissako. Il regista, che viene dalla Mauritania, ci racconta la storia di un uomo che vive in pace assieme alla famiglia fuori dalle mura di Timbuktu, città in cui vige il terrore dei fondamentalisti religiosi. Finché un giorno il protagonista non uccide per sbaglio un altro uomo e tutto si complica…
Per ora vi lasciamo con un giochino, ovvero le nostre previsioni sulla Palma d’oro e i nostri papabili preferiti del concorso. Tutto a priori, a un giorno di partenza, senza aver visto nulla: solo intuizione, sensazione e “tifo”. Antonio crede che la spunterà Olivier Assayas con Sils Maria (proiettato tra l’altro l’ultimo giorno), mentre il suo film del cuore potrebbe essere The Homesman di Tommy Lee Jones.
Per me il favorito continua ad essere ad oggi Winter Sleep di Nuri Bilge Ceylan, mentre il mio papabile preferito non può che essere Mommy di Xavier Dolan… fosse solo perché una Palma d’oro, giovane e talentuoso com’è, con la carriera che ha già alle spalle e i detrattori che ha (sempre meno, certo…), se la merita alla grande.