Torino 2019, secondo giorno, all’insegna d’identità smarrite
Torino Film Festival 2019: personaggi incerti a partire dalla (ri)costruzione delle rispettive identità. Questo ci offre la seconda giornata del Festival
Probabilmente è vero che la maggior parte delle storie fanno capo a conflitti e/o fattispecie che hanno a che vedere con l’identità, vera o presunta, dei personaggi. La giornata di oggi, tuttavia, ci ha offerto tre declinazioni mica male in tal senso. Nella prima, Wet Season di Anthony Chen, abbiamo una storia d’amore impossibile tra una professoressa ed un suo alunno. In una Singapore proiettata nel ventunesimo secolo, la protagonista, Ling, un’insegnante di Cinese, vive una fase di profonda incertezza, tra i cambiamenti forzati a livello culturale, con sempre più persone che parlano in inglese ai danni proprio del cinese, sia a livello personale, con il marito che le rifiuta un figlio. L’aspetto più interessante mi pare proprio nella chiave di lettura che Chen adotta, instaurando un legame tra l’assetto sociale da Capitalismo spinto e la vicenda più specifica di Ling, tanto che se pensiamo di averne viste altre di storie così dalle nostre parti, e da tempo, è perché è così. Segmento di un ritorno forse impensabile più che impossibile; ritorno alle origini, perciò a sé stessi.
De Il grande passo ne ho parlato in recensione. Film italiano che mi ha sorpreso, piccolo ma caloroso, che a mio parere intercetta uno dei limiti più castranti della Cultura entro cui sta macerando il nostro disfacimento, ossia quello della disillusione e della sfiducia a priori. Senza salti mortali, Padovan appronta un piccolo ragionamento, sublimandolo mediante intrattenimento. Ma soprattutto ci riesce nella misura in cui il suo non è un approccio fastidiosamente svagato, anzi, mi pare persino più lucido di quanto possa lasciar supporre la trama, per cui un contadino veneto che non ha finito gli studi in Ingegneria Aerospaziale vuole andare letteralmente sulla Luna.
Tommaso è a mio parere il film più malickiano di Abel Ferrara, che gira un film su sé stesso, di finzione, nei modi del documentario. Con un Willem Dafoe, che interpreta appunto il regista italo-americano, smarrito per le vie di Roma, di quella piazza Vittorio che già conteneva scene di questo suo penultimo lavoro (l’ultimo è anch’esso a Torino e lo vedremo in questi giorni, ossia The Projectionist). Ed è un mettersi a nudo, esponendo ansie, ossessioni, paure, una sorta di resoconto di questa fase nella vita di Ferrara, che non a caso affida il ruolo della compagna del protagonista alla sua vera compagna, e della figlia alla sua vera figlia. Un corto circuito che a più riprese si fa interessante, sempre con quell’atteggiamento viscerale, stavolta onirico, che rimanda a tratti a quella metafisica percepibile in alcuni dei suoi film migliori, quelli nati dalla collaborazione con Nicolas St. John.
Per chiudere, uno dei film dell’anno, quel Synonymes di Nadav Lapid, Orso d’oro a Berlino, che non può certo essere liquidato con un breve commento. Qui la questione identitaria non solo è centrale ma pure spinosa, estremamente delicata, con protagonista una giovane ventenne israeliano trasferitosi a Parigi con l’intento di diventare francese, ripudiando il suo Paese d’origine, ma soprattutto la sua cultura. Opera stratificata, densa, con una regia eccezionale; un’esperienza da cui si esce intontiti, certi di aver visto qualcosa d’insolito, per i giusti motivi, quantunque non si sia stati in grado di cogliere ogni singolo aspetto. Tematica peraltro molto attuale, che indirettamente cassa nel migliore dei modi il rumore su antisemitismo e affini, da una parte e dall’altra, a tal punto Lapid restituisce la complessità di una questione che evidentemente non smette di tormentarci, ciclicamente ripresentandosi, evocata nelle maniere più disparate. Tocca accettare di lasciarsi destabilizzare da questo andamento frammentato, magmatico, che tira fuori idee e intuizioni con un’abilità rara. Toccherà tornarci.