The Wolf of Wall Street: Recensione in Anteprima del film di Martin Scorsese
Il duo Scorsese-DiCaprio torna sul grande schermo a quattro anni da Shutter Island. The Wolf of Wall Street ci parla dell’ascesa e susseguente caduta di Jordan Belfort, astutissimo broker alle prese con un successo fulminante e sopra le righe
Wall Street. Centro del mondo. Capitale di tutti e di nessuno, da dove transitano i soldi di tutti e di nessuno. Denaro che per lo più esiste nella testa dei suoi agenti, quegli epigoni della finanza libera e sregolata che si dà essa stessa delle regole. Mai come negli ultimi anni ci siamo dovuti arrendere all’evidenza di quanto il mondo si regga su quel vuoto. Un vuoto su cui si può dire di tutto o magari niente; allora meglio soffermarsi su coloro che bazzicano da quelle parti.
Martin Scorsese non ha ricette da fornire per la crisi, né qualcuno da bastonare per avidità e corruzione. In The Wolf of Wall Street non troverete vaghi accenni circa talune dinamiche finanziarie, né il più vago indizio sull’effetto domino capace di innescare la più flebile scossa lì a sud di Manhattan. L’ultimo film di Scorsese è un gioco, uno di quelli a cui senza dubbio è stato oltremodo divertente partecipare. Ed il bello è che nessuno lo dà a nascondere.
La sfrontata leggerezza con cui il regista italo-americano tratta l’argomento è il criterio su cui si basa la sua realizzazione, già a partire dal soggetto: parabola ascendente prima e discendente poi di uno yuppie più dotato rispetto alla stragrande maggioranza dei suoi simili, in grado di costruire e vedere crollare il proprio impero nel giro di un’alitata. Un Napoleone del nostro tempo: per il còrso si trattava forse del potere per il potere, per l’americano si tratta senz’altro dei soldi per i soldi. Una storia che non può che concludersi male, certo. Ma fino ad allora alzi la mano chi non se l’è spassata alla grande!
Sapete, ci si sente un po’ goffi per quanto ovvi nell’affermare che questo è e rimane un film intrinsecamente scorsesiano. Ciononostante percepiamo a pelle la necessità di farlo notare. Dopo la parentesi “per ragazzini” con l’incantevole Hugo Cabret, Scorsese offre un’ulteriore variante nell’ambito della propria filmografia, dandosi alla commedia più sfrenata. Una sagra dell’eccesso condito da quel pizzico di demenzialità, che non a caso trova in due particolari episodi le scene più emblematiche dell’intera pellicola. Il primo è la lezione che Mark Hanna (McConaughey in versione mentore) impartisce a Jordan (DiCaprio), verginello in quella tana di squali, quest’ultimo ancora lupacchiotto, altro che lupo. All’incirca dieci minuti esplosivi, che fungono da biglietto da visita per l’insieme delle vicende che seguiranno (dopodiché, se vi va, confrontatela quella analoga presente in Margin Call). Lì Scorsese ci informa in maniera inequivocabile riguardo al tenore successivo, che rimarrà costante senza concedersi pressoché in nessun caso alcuna licenza. Il secondo è un esilarante siparietto da cartone animato tra DiCaprio, Hill e un filo del telefono (con annessa cornetta). Apice e termometro, entrambi, dell’andazzo generale.
Senonché Scorsese, nel tratteggiare l’insaziabile cupidigia di questo individuo che quasi da subito perde il controllo su ciò che fa, comincia ad infilare tanta di quella carne al fuoco da rischiare di tramortirci. Eppure è proprio questo sfoggio di carrelli, di ritmi di montaggio serrati, di brani i più svariati, che ci riporta a quanto abbiamo affermato in apertura in relazione alla radicale paternità di The Wolf of Wall Street. L’andamento scanzonato della narrazione talvolta prende il sopravvento, con ciò intendendo qualcosa che si avverte a pelle più che coglierla in maniera squisitamente razionale: in quei rari frangenti si viene travolti da questo eccesso di ritmo, che nulla ha a che vedere con altri, presunti “eccessi”.
Uno Scorsese senza freno, dunque, che non disdegna un Gloria di Umberto Tozzi subito dopo un devastante naufragio, o la cover di Mrs. Robinson in una delle fasi più concitate del film (e ce ne sono parecchie). Ma che soprattutto si diverte, senza troppi calcoli, a tutto vantaggio di un tempo che si vuole per lo più frenetico e per gran parte del film. D’altronde a ‘sto giro Marty sembra voler saltare a piè pari l’esito emotivo, puntando proprio su questa overdose di suoni, di immagini, personaggi e situazioni deliranti, come se prioritaria fosse l’intenzione di farci in qualche modo partecipare non tanto a quei festini o festeggiamenti, quanto a ciò che sperimenta Jordan nel concedersi a questa giostra perpetua. E mentre qualcuno potrebbe essere indotto a credere che è un ambiente ciò che Scorsese descrive, sarebbe il caso che costui aggiustasse il tiro. Perché è direttamente nella testa del suo protagonista che il regista ci conduce, là dove tutto si consuma, dove tutto è un gioco, dove «è questo il paradiso»!
Capite dunque come mai The Wolf of Wall Street possa a pieno titolo considerarsi un film risolutamente DiCaprio-centrico. Non solo perché quest’ultimo ne è l’essenziale ed ineguagliabile mattatore, ma proprio perché strutturalmente costruito a sua misura, concepito per conferire il massimo rilievo alla sua prova. Che per inciso, è di altissimo livello. Qualche esempio pratico (si fa per dire)? Per come ce lo rappresenta Scorsese, quel mondo altro non è che un’estensione di Jordan Belfort, una sorta di immenso teatro alla Truman Show, però ribaltato, ossia dove la comparsa è proprio lui mentre le “ignare vittime” sono tutti gli altri. In altre parole uno spettacolo vissuto inconsapevolmente da tutti come un reality, mentre Jordan si gode la resa del suo scrupoloso copione.
Una storia che per l’appunto si dipana per lo più in interni, spaziosi o angusti, lussuosi o modesti, chiassosi o quieti che siano. Rare le scorribande in esterni e quasi sempre di breve durata. Come a dire che certi figuri hanno assimilato davvero bene la massima di Sun Tzu (autore molto caro ai broker della Grande Mela già trent’anni fa) secondo cui ogni battaglia va combattuta su un campo a noi congeniale: così s’ipoteca la vittoria. Jordan è sempre impacciato, insicuro, fuori posto laddove sa o avverte di non poter esercitare il proprio, indiscusso dominio. Si osservi l’inadeguatezza di un suo incontro al parco in piena Londra e la si compari con la sicurezza di una discussione qualsiasi nel suo ufficio, nella sua villa, nel suo yacht. È encomiabile la capacità di DiCaprio nel restituirci Belfort nella sua duplice veste: macchina infernale fra mura amiche, ordinario sconosciuto fuori da quel recinto.
Filtra così, in maniera abilmente sottile, il vampirismo di cui a ragione si tacciano certi personaggi, costretti ad operare nel “buio” perché non tollerano in alcun modo la luce del sole. Come i vampiri, anche Jordan è tenuto a ripiegare quando si trova “all’aria aperta”, quando le sue difese calano ben al di sotto dei limiti accettabili ed è esposto a tal punto da essere scandalosamente vulnerabile. Poco sopra abbiamo citato lo yacht. Ebbene, l’episodio in cui il nostro protagonista incontra per la prima volta l’agente dell’FBI Denham è sintomatico circa questa insostituibile esigenza di Belfort: è qui che, per la prima volta, quest’ultimo si rende conto di essere braccato. Ed è sempre qui, sul ponte di una lussuosissima imbarcazione, che Jordan porta avanti il proprio gioco, destinato a fallire miseramente. Allorché non resta che fare ricorso all’unica cosa che conferisce stabilità a questo controverso personaggio, ossia la pecunia, mai come in questo caso adoperata a mo’ di scudo per difendersi.
E non manca in fondo il sottotesto anche in questo caso velatamente universale di Scorsese, che nonostante tutto non tratta il suo protagonista come un alieno, vittima semmai del suo stesso raggiro. Magari Belfort è ciascuno di noi, con la differenza che ha colto ciò che al 99% degli altri sfugge e di conseguenza ne ha spontaneamente approfittato. Poco importa se abbia calcato un po’ troppo la mano: costantemente troppo su di giri per scorgere confini e capire di averli sorpassati. Ma stiamo uscendo dal seminato, quasi che, al contrario di quanto abbiamo fortemente sostenuto, The Wolf of Wall Street intendesse appiccicare una morale al tutto. Ché quest’ultima, se s’insinua, è solo in virtù della storia in sé, che per quanto romanzata rimane sostanzialmente veritiera.
Insomma, a ben vedere il regista di Casinò (che d’ora in avanti non è più il film più lungo di Scorsese) ha girato un altro film con protagonista un ragazzino. Uno che non ha sogni ma che al tempo stesso non riesce a vivere a pieno il presente, narcotizzato com’è non tanto dall’ingente quantità di droghe che assume, quanto da un’ambizione senza fondo ma soprattutto senza meta. Ed allora non stupisce che per farsi un’idea del carattere di quest’adorabile canaglia si possa tranquillamente fare riferimento a quel dialogo col padre in cui quest’ultimo lo mette in guardia da uno stile di vita sconsiderato; al che il figlio, totalmente concentrato su ciò che sta dicendo, elogia le «fiche depilate, totalmente» che si vedono oggi. Al padre, dopo aver espresso il suo gradimento per quelle di una volta, non resta che allargare le braccia: «Sono nato troppo presto»!
Voto di Antonio: 7,5 (9 dopo seconda visione)
Voto di Federico: 8,5
Voto di Gabriele: 8
The Wolf of Wall Street (USA, 2013) di Martin Scorsese. Con Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Kyle Chandler, Rob Reiner, Jon Favreau, Jean Dujardin, Cristin Milioti, Jon Bernthal, Ethan Suplee, Shea Whigham, Spike Jonze, Ben Leasure, Michael Jefferson, Chris Riggi, Joanna Lumley, J.C. MacKenzie, Christine Ebersole e Matthew Rauch. Nelle nostre sale da giovedì 23 gennaio.