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Andare in bicicletta con Molière e scoprire la fine della critica

Il film di Le Guay con Luchini e Lambert Wilson conferma la tendenza del cinema francese di individuare con intelligenza il pubblico a cui rivolgersi

pubblicato 13 Gennaio 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 05:14

Ho visto Molière in bicicletta di Le Guay, ho apprezzato molte cose, e posso dire che si tratta di una pellicola graziosa (mando in pensione la definizione “carino”), punto con leve di sostegno nell’eco di un teatro di tradizione che può ancora dar brividi a un pubblico che è cresciuto, conoscendolo; nella recitazione, quindi; nella capacità di smuovere con pizzichi di nostalgia ben educata con il pepe di un sesso rassegnato ma non domo; e soprattto nel dominio della evocazione. Nel piccolo e gentile film le architravi sono gli umori messi in circolo da vecchie tenere canzoni, scelte con intelligenza e facilità: “Il mondo” del nostro, indimenticato Jimmy Fontana; “La biciclette” cantata da Yves Montand. Lacrime sulle ciglie di uomini e donne, attempati, asciugate con pudore, tra un sorriso e l’altro provocati da Luchini e Wilson.

Voglio cogliere lo spunto per allargare, lo spero, la visuale dopo il pomeriggio godibile, poiché ho pensato a causa del con il film delicious al nostro cinema che non sa dove andare (non voglio ripetermi); e in particolare per spendere qualche riga sulla critica, in una situazione di cinema e di media che decidono tutto, dalla a alla zeta, nel perseguire i loro fini, molto pragmatici, molto concreti. Cinema fatto a fettine con proposte per bambini, ragazzini, adolescenti, secondi adolescenti (dai venti anni ai quaranta), mezza età, terza età, folle di pensionati. Lo sappiamo che è così’ da tempo, e che le cose continueranno in questo modo. Vorrei però non puntare basso, al contrario puntare in alto.

E siccome non so da che parte e a chi rivolgermi, poiché risposte alle questioni appena accennati non riesco a trovarle, punto il dito sui critici. Domando: i critici sono una specie in estinzione? La critica viaggia da tempo verso la terra dei fuochi delle discariche, carta o altro, che non merita neppure il commercio dell’usato?
Apriamo gli orizzonti. A primo colpo d’occhio, si vede fin dalle pagine dei giornali che la critica letteraria regge il filo delle recensioni a seconda delle amicizie con gli autori, e dei rapporti con gli editori. Vuoti a perdere. I sopravvissuti “letterati”, qualche professore in pensione che ha partecipato alla distruzione dei possibili “rincalzi”, continua a suonare il flebile flauto su quanto erano belli i tempi del Manzoni; qualcuno replica dicendo quanto erano belli i tempi di Jack Kerouac e di J.D.Salinger. Illusioni ormai svanite, efficaci flebo, made in Usa, infilate nel sarcofago da Stephen King, lo scrittore di “ Misery non deve morire”. E invece se la Misery della critica dovesse “morire”?

In televisione, i critici letterari non li invitano nemmeno più alle trasmissioni cult nel cuore della notte; in compenso, vanno in video gli autori in cerca di un loro “X Factor”, se la cantano e se la suonano. In compenso, nella notte horror, compare una trasmissione sui libri, firmata da Gigi Marzullo, che è stato costretto a scomparire per diktat aziendali, e spera di tornare a reggere la fiaccola di letture diafane. Nel cinema, i canuti manipoli dei critici dagli anni Cinquanta agli Ottanta erano i feudatari indiscussi di pagine intere, recensendo- dopo i film di Ingmar Bergman e di Federico Fellini (che in “8 e ½” impicca un critico)- , “Ultimo tango a Parigi” e “Ultimo tango a Zagarol” con Franco Franchi (senza Ciccio Ingrassia, ma col burro). Sono andati in pensione, non tutti: prosperano i novantenni.

Oggi i maturi discepoli, all’incirca sui cinquant’anni, fanno i giovincelli disquisendo, litigando, su quante catinelle cadono dal sole nel film del selfmademan Checco Zalone, alias Luca Pasquale Medici, che si è abbronzato di milioni con Sole a catinelle, mentre fuori ancora piove. I sessanta-settantenni sono abbarbicati al ricordo immenso della Corazzata Potemkin, avendo digerito la battuta di Paolo Villaggio: “boiata pazzesca”. La memoria, come la nostalgia, non è più quella di un tempo, come dice la grande Simone Signoret, in un libro meritevole di pensieri gentili.

Siamo di fronte ad un vero e proprio spaesamento, non solo della critica globalmente fraintesa. Lunga la vita dei critici, dunque, mentre ci si allarma sulla vita del cinema a cui il ritorno del vecchio 3D con occhialini ha avuto solo l’effetto di un integratore alimentare. I grandi successi americani discendono regolarmente dai videogames e splendono sugli schermi con immagini e suoni che abbracciano il pubblico come King Kong. Il cinema è un costante tributo al suo meraviglioso passato, in cammino lungo un leggiadro “viale del tramonto”, senza il quartetto d’archi, sax e batteria Wilder-Swanson-Holden-Stroheim. Per quanto riguarda il teatro, le candele vagano su scene e sale stentate, si salvano in pochi, sempre meno. I soldi delle sovvenzioni non ci sono o sono pochi. I critici sentono freddo anche d’estate, e stentano a prendere sonno. Anche il titolo del libro di Ennio Flaiano, “Lo spettatore addormentato”, evoca un tempo sveglio.

Se la gente va, ma sempre meno, lo fa onorando l’acquisto del pacchetto di un abbonamento. Lontani sono gli anni di Visconti, Strehler, del Piccolo di Milano, di Carmelo Bene, del Living Theatre che portava un teatro trionfale di quadri forti, nudi, luci stroboscopiche; e persino di Valli-De Lullo-Falk, l’ultima grande “ditta” di questo nome che tra gli ultimi lavori propose “No man’s land” di Harold Pinter. Giunti a questo punto, in una “terra di nessuno”, ci si chiede cosa sia successo. La mancanza o la riduzione delle sovvenzioni dello stato non spiega un mutamento iniziato tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta; nè lo spiegano le tesi pigre di una crisi strisciante della cultura italiana, in cui creatività e critica si sono smarrite nel trauma del fascismo, della sconfitta nella seconda guerra mondiale, dei lutti e delle macerie. A cui si aggiunge una cascata pessime “novità” sull’ambiente dissepolte negli anni Duemila: tirate su selvaggiamente le città e soprattutto le periferie, sono denti cariati a dentiere, dopo che le campagne sono state abbandonate con brutalità, e i paesi ridotti a mura scrostate e vuote.

Tutto questo c’è stato. Lo scrittore Giuseppe Pontiggia ha puntualizzato con incisività un paesaggio più convincente, ripreso n un commento su “Italialibri” nel 2003; secondo cui, nessuna memoria potrà restituire l’atmosfera del ventennio tra la fine della seconda guerra mondiale e il rapido miracolo economico. I documenti esistenti possono solo “riflettere pallidamente gli esperimenti e le polemiche nati dal senso più o meno ingenuo e meravigliato di libertà e abbondanza, dalla scoperta dei nuovi portati d’oltralpe ed d’oltreoceano, dal desiderio di svecchiare ad ogni costo, di adeguarsi al passo dei tempi. Quel che è accaduto, scrive Pontiggia in una pagina dell’”Isola volante”, chiama in causa processi profondi nella cultura e nell’arte: la mercificazione dei linguaggi, che cominciò a imporsi e a provocare l’insorgere delle avanguardie, e giunta a dilagare senza argini. E’ una fase di trasformazione a vari livelli che trova in saggio famoso, valido, da cui si possono ricavare trame significative sotto una superficie opaca.

Il libro è “Opera aperta”, aperta su società italiana afflitta da ritardi e chiusure nelle idee, pratiche di vita, omissioni, incomprensioni volute almeno in gran parte. L’autore, com’è noto è Umberto Eco, a lui si deve una intuizione che rompeva le stratificazioni e le staccionate in cui era ancora ordinata, disordinata, e soprattutto pettinata, la cultura italiana, in cui crocianesimo e spore di estetica marxista erano conviventi, pretendendo di controllare il corso e il dominio delle cose, delle idee e delle forme in formazione, in corsa verso obiettivi di rottura e di sintesi capaci di superare vecchi ostacoli e incrostazioni. L’efficacia di “Opera aperta”, per ricchezza e originalità, fu determinante, e si trasformò dal 1962 in una proposta di ricerca che mise le basi di una critica formulata da critici in combinazione con artisti, autori, personalità creative in senso ampio, totale: letteratura, musica, cinema , teatro, arti visive, un’apertura senza confini; e alla critica attratta da una ri-costruzione di forme, linguaggi, forte innovazione aderirono anche architetti e urbanisti.

Le influenze della proposta furono tali da assumere le caratteristiche di vera e nuova “avventura” che ho mobilitato energie, avvicinato, mescolato, schierato coloro che non erano in realtà “rivoluzionari” ma semplicemente “riformisti”, che non avevano perso memoria delle avanguardie storiche e volevano rigenerarle in “spirito”, in campo aperto, per nuove opere aperte: da James Joyce, scelto come punto di riferimento del romanzo da cambiare, con tutte le retoriche ereditate dalla grande tradizione ottocentesca, a Ferdinand de Saussure e agli strutturalisti. Eco e altri vi attinsero per imporre la semiologia come nuova frontiera della critica e della elaborazione di forme sperimentalmente inedite.

E’ accaduto questo. Da un lato, i “nuovi critici” scalzavano lo stato delle cose, superando difficoltà e pregiudizi ostili nelle università e nei luoghi di formazione delle opinioni (stampa e media). Dall’altro, coloro che si sottoponevano al loro vaglio, alle loro esigenze innovative, e cioè i “nuovi autori” o aspiranti tali, accoglievano e applicavano la tesi di Michel Foucault e Roland Barthes sulla “morte dell’autore”. Ovvero, l’“autore” non più capace di ricoprire il fondamento originario, e quindi non era più possibile valutarlo secondo un a funzione variabile nel discorso e nelle retoriche in evoluzione.

Gli anni Sessanta si trasformarono, sotto questo aspetto, in una grande piscina in cui si tuffarono, imparando a nuotare, sia i “rivoluzionari”, scaldati delle varie contestazione studentesche e giovanili, dalle proteste sociali e dalla precarietà delle ideologie; sia i “riformisti” che si aggregarono alla tendenza in atto, una tendenza generale. La tendenza era quella di inseguire con elaborazioni teoriche e performances sempre faticosamente sollecitate dalle contestazioni e proteste, mentre le società separatamente entravano in un capitalismo messo alla prova o meglio alle prove di mercati sempre più vasti e sconosciuti a cui adeguarsi, mercati che andavano incontro ad assetti in continua ampia mutazione. Mutazione, non ancora rallentata, nella industria e nella risorse comunicative, con il fantasma del discorso sempre più assunto nelle spire dello storytelling, la prefabbrica creativa in cui tutte le storie hanno una sola storia :dalla pubblicità ai media, al cinema e oltre.

La situazione si è involuta ma anche evoluta. Involuta, perché il nuoto nella piscina metaforica- crogiuolo, brodo primordiale della contemporaneità- continua e anzi continuerà, decretando congedi e pensionamenti (la semiologia oggi sacrificata se non proprio abbandonata), a porre più domande che aprirsi a risposte. Evoluta, perché stanno cadendo ad una ad una, assimilate o abbandonate, le “certezze” di neo-avanguardie legate al destino delle avanguardie “storiche”. Ed ecco che il critico e l’autore si stanno fondendo nella pratica del fare e siccome il fare viaggia con regole e input che sono veloci, velocissimi; la nuova figura stenta e vive alla giornata.

Il riciclo di esiti e conoscenze creative sta per arrivare a capolinea solo in parte prevedibili. Per fortuna. Bisognerà cercare di capire, senza illusioni, lo storytelling con cui dovremo convivere; sapendo bene che finirà in library, ossia archivio dei massmedia. Povere library. Possiamo commuoversi alle canzoni di Jimmy Fontana e di Yves Montand. Amare Molière. Provare simpatia per Luchini e Wilson. Basta? In Italia, chi pensa e fa un cinema capace di muoversi in ambiti meno angusti, con la ambizione e le qualità per andare oltre i mercati generazionali e soprattutto quello dei pensionati (che non fanno male a nessuno) di ieri, domani, dopodomani. E oltre. Vai con la bicletta?