Anita B.: Roberto Faenza filma il coraggio di rinascere dopo l’inferno di Auschwitz
Roberto Faenza porta al cinema il coraggio di vivere e le speranza di rinascita di “Anita B”, sopravvissuta ad Auschwitz e al mondo che vuole dimenticare, con un film liberamente ispirato al romanzo omonimo di Edith Bruck, al cinema dal 16 gennaio 2014.
Aspettando la Giornata della Memoria, che il 27 gennaio torna a celebrare la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, nel mondo in crisi che rigurgita miseria e ignoranza, nell’Ungheria che vive l’ondata di antisemitismo di ritorno, il nuovo film di Roberto Faenza, torna alla vita dopo l’orrore dei campi di concentramento con Anita B.
Faenza filma il coraggio e la speranza di rinascita, che non riesce ad uccidere neanche l’inferno in terra, seguendo la piccola Anita B., con il volto da ninfa delle fiabe di Eline Powel (Quartet), un’adolescente di origini ungheresi, che non ha ancora sedici anni, sopravvissuta ad Auschwitz, fuggita da un orfanotrofio e accolta dalla zia Monika, l’unica parente ancora viva.
Una piccola esule in un mondo che non vuole ricordare, neanche il giovane David, con il volto da angelo-demonio di Robert Sheehan (serie Misfits), del quale si innamora, ed è così spaventato dalla sua voglia di tornare a vivere, nel senso più ancestrale del temine, da gettarla in un altro inferno, costringerla ad una decisione che richiede coraggio, sino al colpo di scena finale.
Un film sulla speranza, liberamente ispirato al romanzo semi autobiografico “Quanta stella c’è nel cielo”, della romanziera e poetessa di origine ungherese Edith Bruck, che firma la sceneggiatura con il regista, Nelo Risi e la collaborazione di Iole Masucci.
“L’ho fatto mio. Come in Prendimi l’anima o Jona che visse nella balena spiego come la vita sia più forte di tutto, come l’esplosione dei sentimenti sia sempre spiazzante. Non ho vissuto quello che ha visto Edith, ma penso che questa storia abbia una valenza in più: quando si racconta la Shoah, il dopo si tende a dimenticarlo come se i sopravvissuti non abbiano diritto di parola. Il dopo va esplorato, la memoria resta. I ragazzi di vent’anni non sanno quasi niente, è giusto continuare a raccontare. Come diceva Don Puglisi: ‘È inutile occuparsi degli adulti, hanno già le loro idee'”. Roberto Faenza.
Il film a basso costo e notevole impatto, prodotto da Elda Ferri e Luigi Musini con Rai Cinema, il sostegno del ministero per i Beni culturali e la Film Commission Sudtirol Alto Adige, oltre al patrocinio del Comitato di Coordinamento per le Celebrazioni in Ricordo della Shoah, dopo l’anteprima nazionale del 14 gennaio a Roma, arriva al cinema il 16 gennaio con Goods Films.
Ad incuriosire e far discutere del film, ancora prima di vederlo, è comunque anche la provocazione lanciata promuovendolo, che fa esplicito riferimento alla tendenza imperante di preferire il presente effimero alla storia, confutata dal programma di RaiUno in cui spesso i concorrenti dimostrano di non conoscere gli eventi della Storia e la loro cronologia.
Note di Regia
Quanti film sono stati realizzati sulla Shoah? Tanti. Qualcuno dice forse addirittura troppi. Io stesso ne ho realizzato uno. Ma pochissimi sono stati prodotti sul dopo, cioè affrontando la vita dopo la morte.
Anita B. si sforza di coprire questo dopo e lo fa con l’intenzione di colmare un vuoto dovuto a molte cause. Tra queste, in primo luogo il bisogno di dimenticare. Quando il trauma è troppo forte, ecco giungere in soccorso il placebo della rimozione.
Anita è una ragazza tenera e sensibile. È appena adolescente quando esce da Auschwitz e ha conservato la voglia di lottare, nonostante l’esperienza dei campi. Va incontro al nuovo mondo e alle peripezie che la attendono carica di energia, ma anche di ingenuità.
Nel dopoguerra di allora, tutti vogliono vivere con frenesia. Per molti però vivere significa oblio: senza rendersi conto di seppellire se stessi insieme alla memoria. Ed è così che Anita si trova a poter parlare del suo passato solo con un bambino di un anno. Il piccolo Roby ascolta i suoi racconti, ma non può capirla. Tutti gli altri la invitano a “cambiare argomento”, oppure le dicono “è passato, dimentica”.
Anita desidera andare avanti senza rimorsi. E non vuole limitarsi a sopravvivere.
Nella lotta per affermare la propria identità c’è la ricerca dell’amore, in cui darà tutta se stessa, affrontandone costi e rischi.
“Ma a ben pensarci, cos’è l’amore?”, si chiede quando pensa a Eli, di cui si è perdutamente innamorata. E si arrovella per trovare una definizione, salvo convincersi che è “una cosa tanto meravigliosa che se provi a definirla, si arrabbia e perde tutta la sua meraviglia”.
La burrascosa passione in cui si trova coinvolta sembra volgere al peggio, quando miracolosamente riesce a imporre una sterzata e trasformare il salto nel buio in una occasione di ribellione e rinascita.
Considero Anita B. il mio film più controcorrente, persino in maggiore misura del pluri-censurato Forza Italia! In un periodo in cui il cinema sempre più si affida a un mondo irreale fatto di universi inesistenti e roboanti effetti speciali, questa storia guarda ai suoi protagonisti con pudore e discrezione, quasi in punta di piedi.
Il racconto di Edith Bruck, al quale il film è liberamente ispirato, descrive la quotidianità di Anita in un ambiente fortemente ostile, quasi fosse una colpa essere stata deportata. Non ho mai chiesto a Edith quanto ci sia di autobiografico in quelle pagine, ma ho voluto aggiungere B. ad Anita, in omaggio al suo cognome. Quando ho finito di leggere il libro durante un viaggio aereo dal Giappone dove ero stato a presentare un mio lavoro, ho avuto una crisi di pianto e ho dovuto nascondermi in bagno, sconvolto. Spesso mi chiedo come possiamo lamentarci delle nostre pene, quando ci sono persone che hanno davvero vissuto nell’inferno.
Un altro grande scrittore scampato ai campi, il premio Nobel Elie Wiesel, che ho avuto la fortuna di conoscere, ha dato a un suo libro recente il titolo “a cuore aperto”. Nel momento in cui entri in rapporto con l’Olocausto, dice Wiesel, diventi a tua volta un testimone.
E’ una grande responsabilità quella che ci assumiamo, pur essendo semplici spettatori. Ma a ben pensarci è una bellissima responsabilità, perché se siamo vigili la nostra testimonianza diventa un fiammifero che una volta acceso non si spegne più.
Ho cercato di girare “a cuore aperto” la storia di Anita, lasciandomi trascinare dal suo entusiasmo, dal suo candore e anche dalla sua soggettività. Un po’ come ho fatto con Jona che visse nella balena, anche in questo caso ho piazzato la macchina da presa all’altezza degli occhi della protagonista, per cui tutto ciò che ho visto non ha pretese di essere oggettivo.
Mentre lavoravo tra le montagne dell’Alto Adige e Praga, ho pensato che questa fatica (due anni per trovare i finanziamenti necessari e uno per arrivare alla copia campione) per me rappresenta il seguito di Prendimi l’anima, convinto che Sabina Spielrein avrebbe potuto amarlo. Da qui lo spunto per una conclusione ideale, comune al tragitto di due donne coraggiose e indomite: “un viaggio verso il passato con un solo bagaglio: il futuro”. Che è la frase con cui si chiudono gli ultimi fotogrammi.
di Roberto Faenza
Via | Jean Vigo Italia – Facebook