Home Festa del Cinema di Roma Roma 2019, Honey Boy, la recensione: il film terapia di un grandioso Shia LaBeouf

Roma 2019, Honey Boy, la recensione: il film terapia di un grandioso Shia LaBeouf

Opera catartica da parte di Shia LaBeouf, che ha così deciso di raccontare le proprie agonie adolescenziali.

pubblicato 20 Ottobre 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 16:05

Visto al Sundance Film Festival 2019, dove ha vinto un premio speciale, Honey Boy dell’israeliana Alma Har’el ripercorre l’incredibile vita di Shia LaBeouf, attore dall’età di 12 anni letteralmente esploso in sala nel 2007, con Disturbia e il primo capitolo dei Transformers, prima di farsi vedere in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo. All’epoca LaBeouf sembrava il nuovo golden boy del cinema hollywoodiano, re degli incassi, talentuoso e con Steven Spielberg in qualità di padrino, ma ben presto Shia è precipitato in un tunnel autodistruttivo da cui ha enormemente faticato ad uscire.

Arresti su arresti, intemperanze continue, fughe dal set, fiumi di alcool, droghe e ovviamente rehab su rehab. Proprio qui, in riabilitazione, il divo oggi 33enne ha buttato giù una sceneggiatura sulla propria esistenza, sulla propria infanzia, sul complicato rapporto con il padre Jeffrey, ex veterano del Vietnam nonché clown per i rodeo che abusò psicologicamente del figlio. LaBeouf è cresciuto a Echo Park, quartiere di Los Angeles principalmente abitato da immigrati messicani, con un padre violento che il piccolo Shia accompagnava alle riunioni degli Alcolisti Anonimi.

Un rapporto che ha chiaramente segnato l’attore, primo adolescente e ora uomo, deciso finalmente ad uscire da quel tunnel interpretando proprio quel padre padrone. E’ lui, lo stesso LaBeouf, ad indossare i sudici abiti di questo adulto mantenuto dal figlio 12enne, uscito di prigione dopo aver tentato di stuprare l’ex moglie e mai ripresosi dalla guerra in Vietnam, che gli ha scombussolato il cervello. Nei doppi panni di ‘Shia’, invece, troviamo il sempre più lanciato Lucas Hedges e uno strepitoso Noah Jupe, 14enne inglese visto in A Quiet Place che tiene splendidamente testa ad un LaBeou spaventoso, minaccioso, fragile e sempre pronto ad esplodere.

Sfruttare l’arte cinematografica come forma di terapia. LaBeouf ha attinto dal proprio passato, dai propri ricordi per provare a far pace con una famiglia complicata, con un ‘io’ segnato da quell’adolescenza disumana, fuori da ogni regola. Hedges interpreta uno Shia egocentrico ma con enormi complessi di inferiorità, legati proprio a quel padre che non osava dargli la mano in pubblico per non sembrare un pedofilo, che derideva le dimensioni del suo sesso da 12enne, che guardava con invidia al suo successo, alla sua crescente popolarità, al suo evidente talento. Un padre che in tanti anni gli ha insegnato solo una cosa: a provare dolore.

Giocando con i piani temporali e costantemente in bilico tra realtà e immaginazione, la Har’el è perfettamente riuscita perfettamente a tramutare in immagini uno script che trasuda sincerità e coraggio, nel mostrare l’educazione malsana di un bimbo prodigio, segnato a vita dal riflesso di un uomo che non riesce comunque mai del tutto a disprezzare. Perché è pur sempre suo padre. Intimo e delicato, Honey Boy è una vera e propria confessione cinematografica dell’irrequieto Shia, trasformato e straordinario nell’interpretare quel papà così instabile e rancoroso.

Una duplice riconciliazione, quella costruita e portata avanti da LaBeouf, con se stesso, con il ricordo del padre e con quella settima arte che ha inizialmente incrociato solo e soltanto per far soldi, per mantenere la famiglia. Un lavoro e poco più. Pronti, via ed è subito chiaro il rimando a Transformers, con Hedges catapultato tra i resti di un aeroplano da poco esploso, prima di finire nuovamente in galera, in rehab. Un’opera prima di struggente fascino, quella diretta dalla Har’el, redenzione filmica da parte di un 33enne che poco più di 10 anni fa sembrava avere Hollywood tra le dita della mano, prima di precipitare in un limbo buio e tempestoso.

Un volo a planare su quella Mecca del Cinema che nasconde altro, dietro i lustrini e la celebrità, crudo e quasi salvifico per quel LaBeouf che ha scritto ogni parola pronunciata sullo schermo. “Un seme deve distruggersi completamente, prima di diventare un fiore“, ricorda il padre al figlio 12enne mentre gli passa una canna, iniziandolo ad un’altra dipendenza che quel giovane, una volta cresciuto, pagherà a caro prezzo. Straziante, a tratti retorico e catartico, Honey Boy è l’ultima stazione di una lunga e riconciliante via crucis con una storia mai realmente archiviata da parte di un divo hollywoodiano che doveva andare ad interpretare il proprio incubo, per regalarci la performance della vita.

[rating title=”Voto di Federico” value=”7.5″ layout=”left”]
Honey Boy (drammatico, Usa, 2019) di Alma Har’el; con Shia LaBeouf, Lucas Hedges, Noah Jupe, FKA twigs, Natasha Lyonne, Martin Starr

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