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Davanti e dietro i candelabri: un cinema costruito dalle idee e sensibilità… e noi?

Si conferma la superiorità delle sceneggiature e la chiarezza del racconto, in tre film che vengono da altri mondi

pubblicato 15 Dicembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 06:08

Quando vai al cinema, capisci meglio. Lo dico riferendomi alla strana situazione di un cinema, il nostro, che vive di esploit e poi si addormenta. Sogni d’oro? No, veri e propri incubi. Che senso ha accapigliarsi sul successo al botteghino di Sole a catinelle di Checco dalle uova d’oro? E sul fatto che dobbiamo essere orgogliosi per i successi di premi o di futuri premi (l’Oscar?) toccati o che toccheranno a La grande bellezza di Paolo Sorrentino, unico nostro regista che portiamo all’occhiello?

Mah. Boh. Li mortacci loro, degli opinionisti che si accapigliano, quasi sempre in romanesco, anche se sono di Milano o di Torino. Noi andiamo al cinema. Noi che siamo spettatori comuni e sappiamo solo cose che abbiamo viste o studiate con emozione, senza preconcetti, senza arrampicarsi sui tubi innocenti (colpevoli) di teorie stracotte. Un giorno, se dio me la manda buona, farò nomi, cognomi, ditte e facoltà. Noi che in pochi giorni abbiamo potuto fare filotto con tre film.

Dietro i candelabri di Steven Soderbergh, con due grandi interpreti Michael Douglas e Matt Damon. Due gay che ricordano la “zia di Carlo”, classico teatrale dei travestimenti. Il primo nei panni del decorato Liberace, pianista e cattolico innamorato a go go, lustrini, peli depitati e capelli imparruccati; il secondo, glabro, sfilatino, poi ciccione come l’altro poi di nuovo co-sfilatino, scudiero che dà e non prende sul set nelle posture sex, disperato e commovente nel bilancio dell’amore-avventura in camera, molto in bagnoschiuma, e nella piena luce dei riflettori. Un film che sorprende, conquista, inciampa, sbanda, volutamente mette volgarità per poi recuperare amore al profumo di violette. Una cascata di note della tastiera e tasti che a volte sono cariati.

Il passato dell’iraniano Asghar Farhadi, con Bérénice Bejo (quella di The Artist) ovvero: un’attrice così non l’abbiamo, neanche dipinta, forse in foto d’altra epoca. Un film magistrale. Comincia come un film neorealista di marca iraniana ma noi, che abbiamo visto e gradito La separazione dello stesso regista, abbiamo pazienza, e ci aspettiamo che Farhadi ci stupisca. Cosa che avviene. Le solite corna pirandelliane, croce e molta delizia dei nostri cinema e teatro, show primigenio dei cornuti bisex da noi indispensabili idioti, si sfarinano in gesso. Sulla lavagna il gesso potrebbe scrivere: “Asino chi legge”, intendendo colui o coloro che in made in Italy non sanno più raccontare una storia d’amore o disamore. Invece del pirandellismo tarantolato, ecco emergere un Hitchock dei sentimenti e dei complotti. Come macellai che si tengono le lacrime in tasca, i personaggi della pellicola si affettano a vicenda, con raffinatezza. Come in un piano sequenza più virtuale che effettivo, il delitto procede di personaggio in personaggio, dagli adulti ai giovani, ai ragazzi. Il sangue è già scolato. Odio, menzogne, tradimenti, ferite si danno appuntamento nella banlieue e nelle botteghe delle città, in cui le tintorie non smacchiano e le farmacie dispensano pozioni diaboliche. Le immagini e le parole scorrono come il sangue di Psycho che finisce eroico nel buco della doccia.

Finalmente Woody. Reduce da atroci marchette, con albergo e ristoranti a cinque stella, con legion d’onore, targa di Barcellona e lupa de Roma, mister Allen ritrova l’America e le sue tragedie, in piena atmosfera “interiors” (titolo di un suo film da ricordare). Blue Jasmine: Cate Blanchett, è assassina che si assassina lentamente, goccia dopo goccia, distribuendo generosi avanzi a chi le sta intorno. Blue, triste, distraziata Jasmine che potrebbe uscire o entrare nel film “Il passato”. Perché, nei temi dell’amore o del disamore, non c’è né passato né presente, e forse c’è o s’intravede il futuro, se ci prendiamo un cannocchiale spaziale, cercando l’ago dell’amore nel pagliaio della via lattea.

Conclusione. Soggetti, sceneggiature, regie, interpreti. Voto nove (se devo fare il difficile) o dieci (se devo fare l’esagerato). Film così non li pensiamo perché non li sappiamo fare. O meglio non li sanno fare i produttori (balordi per eccellenza), le tv (indescrivili, sentine di masochismo), gli autori (annodati ai loro ombelichi). Ma non perdiamo ogni speranza noi che entriamo, puri (?), in sala. Bisognerebbe legare i responsabili, la Spremiata Ditta del Maldicinema & Soci, alla sedia di Burgess-Kubrick. La sedia di contezion, quella di “Arancia meccanica”: cura a occhi aperti obbligati, fissati con mollette, per vedere e rivedere il buon cinema, imparare, almeno un po’ di umiltà e di rispetto per lo spettatore pagante.