Enemy: Recensione in Anteprima
Jake Gyllenhaal ama le sfide, e a distanza di anni da Donnie Darko è di nuovo protagonista di un intricato thriller psicologico. Enemy di Denis Villeneuve non fa sconti e mette alla prova anche i meglio intenzionati
Era pressoché inevitabile che il romanzo da cui è tratto Enemy diventasse un film. E lo era per svariati motivi. Lo stesso autore del libro, ossia José Saramago, in qualche modo profetizzò tale passaggio, quando in relazione al suo L’uomo duplicato affermò: «sembrava un film di fantascienza, scritto, diretto e interpretato da cloni agli ordini di uno scienziato pazzo». Che ci gratifichino o meno, queste parole suonano così sincere che dar loro credito non è delitto, anzi.
Denis Villeneuve non se l’è fatto ripetere due volte, buttandosi a capofitto su un progetto molto ambizioso. E non che arrivasse a tavola apparecchiata, perché riuscire a sbrogliare questa matassa siamo sicuri abbia richiesto non poco coraggio. La trama, in fondo, non sembra poi così complessa. Adam Bell (Jake Gyllenhaal) è un inquieto professore che un giorno, in maniera del tutto casuale, scopre di avere un sosia. Lo scopre guardando un DVD che un suo collega gli aveva da poco consigliato, dal titolo Volere è Potere. Tale scoperta è per Adam una rivelazione, che di lì a poco assume i connotati dell’ossessione: deve conoscere l’attore identico a lui. Parte dunque alla ricerca e scopre che Anthony St. Claire (Jake Gyllenhaal), questo il nome del suo sosia, ha una moglie incinta di sei mesi. Ma soprattutto, è davvero identico a lui. In tutto e per tutto.
D’ora in avanti è come entrare nel labirinto di Dedalo. Villeneuve rischia davvero tanto affidando Enemy ad un ritmo blando, quasi contemplativo. Rischio compensato, se così si può dire, da una messa in scena essenziale, perché l’argomento è complesso e bisogna stare attenti a come ci si relaziona allo spettatore. Quest’ultimo si trova costantemente ad un bivio: esiste davvero Anthony oppure è frutto della mente di Adam?
Ed è pur vero che entrambe le soluzioni quasi mai convincono, talora perché non soddisfacenti, taltra perché si avverte sempre esserci qualcosa di più. In tal senso è difficile, almeno per ora, sbilanciarsi su quale sia l’interpretazione più corretta, ed in fondo non siamo nemmeno sicuri che la spiegazione sia poi così univoca. O quantomeno, può darsi pure che Villeneuve non disprezzi affatto l’idea che ciascuno ci veda quello ci veda nel suo film.
L’aspetto che colpisce maggiormente è l’abilità, non stentiamo a credere derivata dal libro, nel saper suscitare così tanti interrogativi servendosi di così pochi elementi. A noi non resta che procedere a tentoni, alla ricerca di un senso che si pone su un livello altro rispetto a ciò che vediamo e che ci è dato intendere. Viene infatti lasciato sullo sfondo quello che potremmo definire un terzo Adam, che è peraltro la “copia” con cui il film si apre e si chiude. Di questo terzo, ingombrante personaggio si può poi davvero dire di tutto e di più, ma l’impressione è che parte della risoluzione dell’enigma passi proprio da lui. Ma ancora: esiste questa risoluzione?
In realtà la tesi che ci convince di più sino ad ora è che l’intera vicenda sia principalmente una tremenda provocazione, e che sottoporcela attraverso immagini anziché parole scritte accresce di molto il suo grado di indecifrabilità. Villeneuve può infatti permettersi il ricorso ad espedienti a cui Saramago, per forza di cose, non può accedere. È questo il caso di certi stacchi estemporanei, fulminanti tra una scena e un’altra, o addirittura all’interno della stessa. Come un blackout, come se tutto venisse resettato, come se da lì la narrazione indossasse una nuova pelle non per forza somigliante a quella che l’ha preceduta.
Siamo dalle parti del thriller marcatamente psicologico, dove si procede per allegorie, visioni e misure come quelle sopra elencate relative al montaggio. Il regista canadese fa fondo a tutto ciò da cui può attingere per amore di trascinarci in questo labirinto costellato di paradossi e intuizioni più o meno accessibili. Resta la potenza di certi quadri, già assurdi di per sé ma ancora di più inseriti in quel contesto. A suo modo Enemy riesce ad essere anche implacabile nel suo iniettare in sordina quella costante sensazione di oppressione, vuoi per il predominante e claustrofobico giallo che contraddistingue la fotografia del film, vuoi per certe inquadrature ricorrenti, come le plongée dall’alto, dove si scorge sempre la stessa schiera di palazzoni residenziali.
Quasi a dirci che da lì non si scappa, che non è possibile eludere questa tappa. Tale percorso s’ha da compiere e non c’è nulla che si possa fare per evitarlo, sebbene il tutto sia caotico, confuso, sfuggente. Enemy è caos, quel caos che, come si legge all’inizio del film, «è ordine non decifrato». E di certo non aiuta quell’ultima, drastica e per certi versi agghiacciante immagine che chiude il film prima degli ironici titoli di coda. E che rimette tutto in discussione operando l’ultimo, definitivo reset.
Voto di Antonio: 8
Voto di Gabriele: 8
Enemy (Canada, 2013) di Denis Villeneuve. Con Jake Gyllenhaal, Mélanie Laurent, Isabella Rossellini, Sarah Gadon, Stephen R. Hart, Jane Moffat, Joshua Peace, Tim Post, Laurie Murdoch, Kiran Friesen, Loretta Yu, Joe Vercillo, Darryl Dinn e Alexis Uiga.