Oldboy: Recensione in Anteprima del film di Spike Lee
Tra non poche perplessità il remake di Oldboy è pronto a mostrarsi al grande pubblico. Spike Lee tenta di far rivivere le estreme vicende dell’originale coreano dall’altra parte del globo e a distanza di dieci anni
Si racconta che ad Hollywood, da un po’ di tempo a questa parte, la gente si annoi. Sia chiaro, non che noi si conosca affatto quelle zone, ma probabilmente le nostre fonti non si riferiscono allo stile di vita. Magari si allude a quell’industria che, per un motivo o per un altro, rischia sempre meno. Sarà che internet è il ritrovo degli arroganti, che credono di aver diritto a un’opinione solo perché hanno letto quattro cose su Wikipedia et similia. Non sapremmo. Ma all’annuncio del remake di Oldboy sembrava quasi che il dispetto fosse fatto apposta.
Dieci anni sono trascorsi dall’originale, quell’Oldboy di Park Chan-wook che è senz’altro tra i film asiatici più esportati e conosciuti di sempre. E che lo conoscano davvero in tanti se lo saranno ripetuti come un mantra i produttori di questo rifacimento lato america, forse nel tentativo di allontanare quelle male sirene che cantavano di un progetto nemmeno rischioso, fallito proprio. A priori, con tutti i sacrosanti pregiudizi del caso.
Christian Bale, quali che fossero i motivi, fece in tempo a tirarsene fuori, mentre Spike Lee, in sella al cavallo sin da principio, è parso sempre piuttosto sicuro a riguardo. Ma cosa aveva, se non da aggiungere, quantomeno da integrare questo remake? È ciò che ci siamo chiesti nel corso di questi mesi; una domanda alla quale nessuno può e deve sottrarsi, né noi in qualità di spettatori né gli autori, anche adesso, a cose fatte. Sì, qualcuno dotato di un discreto buon senso potrebbe anche sottolineare la possibilità di accostarsi all’Oldboy di nuova generazione a mente sgombra, per quanto sia possibile. Ma a costui andrebbe fatto altresì notare che a ‘sto giro le attenuanti sono poche, e gli scompensi sono tanti.
Perché il lavoro di Spike Lee ahinoi è lì a testimoniare questa incapacità (ci guardiamo bene dallo scrivere impossibilità) di far indossare a due persone diverse lo stesso maglione. Il primo, quello di Chan-wook, cucito su misura, concepito per quello specifico destinatario, che mai e poi mai è stato trascurato lungo l’intero processo. Il secondo, quello di Lee, infilato a forza, tanto da evidenziare certi inevitabili strappi, indice di ineleganza, la stessa di cui non si ha traccia alcuna nel primo indossatore.
Accantoniamo questo gergo goffamente modaiolo, e torniamo alla terminologia che più ci compete. Spike Lee tenta di dare un senso a questa conversione servendosi essenzialmente di due elementi: la tecnologia oggi disponibile e assente o poco diffusa nel 2003 in Corea del Sud, ed un finale ritoccato. Punto. Il resto altro non è che un tentativo di far rivivere non semplicemente una formula, bensì un’intera e complessa equazione, senza però disporre dei requisiti adatti. Ma di questo non ce la sentiamo di colpevolizzare troppo gli autori; è che proprio il film di Chan-wook è lì che si dimena per l’intera durata del suo remake, quasi come fosse sottoposto ad un’inutile tortura.
Vogliamo per un attimo oscurare ogni paragone? Sebbene ripetiamo che non sia così semplice, facciamolo. La prima parte di Oldboy vede questo stralunato personaggio, tale Joe Doucett (Josh Brolin), vagare per la Grande Mela in preda ad uno smarrimento riguardo alle cui motivazioni si lascia per lo più a intendere. Già in questa fase emergono le prime forzature, dettate più che altro dall’esigenza, o quantomeno dal desiderio, di approdare al medesimo punto in cui approda l’originale in maniera diversa. Vedete? Torna l’originale, ma nessuno può farci nulla se la fonte da cui si ha attinto così a piene mani costituisce anche il più tangibile limite di questo film. Joe sta per siglare un importante accordo di lavoro, di cui sia lui che il suo capo hanno disperatamente bisogno. Ora, esiste una miriade di modi per mandare a puttane una situazione così favorevole: tra tutte, la più raffazzonata ci sembra proprio quella proposta. Ma si capisce. Quel risvolto è chiamato ad assolvere il ruolo di catalizzatore degli eventi immediatamente successivi, senza i quali la storia, semplicemente, non può procedere secondo i binari prestabiliti.
Mi rendo conto che la mancata descrizione della scena non agevoli la comprensione, ma capite bene che quest’eccesso di fedeltà, questa abiura al processo creativo, non può in alcun modo fare a meno di emergere. E lo fa con tale forza da lasciar scorrere certi episodi con una lentezza ed una mancanza di verve che a posteriori soprattutto lasciano perplessi. Perché in fondo la storia è lì, potente, anzi, alla luce dell’epilogo pure più perversa rispetto a quella coreana. Senza però che nulla o quasi sia al proprio posto; perché a dirci, anzi ad urlarci, che ogni specifica sequenza abbia un posto specifico che le appartiene è proprio il film stesso. Come chi applica dei principi giusti alle situazioni sbagliate, Lee e Protosevich restano imbrigliati in questo processo di traslazione, che si risolve in una rappresentazione paradossalmente debole. Come se questa sceneggiatura fosse stata caricata di un peso che non riesce a reggere, e che dunque crolla non appena glielo si adagia sulla schiena.
Senza stare lì ad esaminare ogni singolo personaggio, su tutti quello che sinceramente non convince affatto è l’Adrian Pryce di Sharlto Copley. Il che fa riflettere, perché a conti fatti è l’unico in relazione al quale ci si è concessa qualche piccola licenza. Troppo caricaturale, con quel tono di voce e quell’accento britannico che non incutono alcuna autorità. Perché un personaggio come quello, e Chan-wook ce lo ha mostrato pienamente, ha un vitale bisogno di incutere timore, riverenza, di sapersi ammantare di un alone di mistero essenziale per buona parte del film. Ed invece niente, Copley non è credibile nemmeno per un secondo. Il che, inutile dirlo, sgretola troppe delle colonne che sorreggono questa storia. Colonne che non si vedono, è chiaro, strutturali, come solo i migliori architetti sano concepire.
Oldboy di Spike Lee si risolve dunque nella mera banalizzazione di una trama oltremodo vigorosa, e che in quanto tale rimane non suscettibile di aggiustamenti. Più ci si sforza di togliere, aggiungere o anche solo modificare la formula iniziale, più ci si allontana dal cuore pulsante di questa storia, così simmetrica e vicina alla perfezione come ci mostra l’originale Oldboy. La beffa è che pure nella misura in cui si anela ad una scrupolosa nonché ossequiosa lealtà alla fonte non si ottengono gli effetti sperati. Anche qui, più ci si industria ad imitare più ci si mostra impacciati. Alla fine l’immagine più emblematica resta la scarcerazione di Joe, chiuso all’interno di un baule Louis Vuitton nel bel mezzo di un immenso prato verde. Qui la parodia è servita.
Voto di Antonio: 4
Voto di Federico: 5
Oldboy (USA, 2013) di Spike Lee. Con Josh Brolin, Elizabeth Olsen, Sharlto Copley, Samuel L. Jackson, Michael Imperioli, Linda Emond, James Ransone, Hannah Simone, Grey Damon, Max Casella e Rami Malek. Nelle nostre sale da domani, giovedì 5 dicembre.