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Anniversario della morte di Kennedy: il confronto cinematografico con Lincoln

Due uomini, due Presidenti, assassinati a un secolo di distanza l’uno dall’altro. Abraham Lincoln, l’avvocato di provincia, il figlio della frontiera nato in una capanna di tronchi e John Fitzgerald Kennedy, il rampollo dell’aristocrazia del New England, ucciso in circostanze ancora non del tutto chiare il 22 novembre del 1963, esattamente 50 anni fa.

pubblicato 22 Novembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 07:03

JFK e Lincoln non furono gli unici due Presidenti a venire assassinati durante il loro mandato: anche James A. Garfield, nel 1881 (16 anni dopo Lincoln) venne ucciso alla Casa Bianca con quattro colpi di pistola. Ma la sua figura non influì nella genesi del mito americano quanto quelle dei due succitati.

Lincoln padre della patria, eternato nella pietra del monte Rushmore, assieme al fondatore Washington; il Presidente bonario ma inflessibile che abolì la schiavitù e riunì il paese sotto un’unica bandiera negli anni drammatici della Guerra di Secessione. Kennedy il “fidanzato d’America”, il bel figlio del grande clan, l’uomo che voleva la pace nell’era della Guerra Fredda. Il cinema ha parlato molto di loro. Ma come? E con quanta “esattezza” storiografica?

L’omicidio Kennedy ha stimolato capolavori come JFK – Un caso ancora aperto, di Oliver Stone e film mediocri come il recente Parkland, mentre l’epopea di Lincoln è stata omaggiata dall’omonimo colossal di Spielberg e la sua fine indagata da Robert Redford in The Conspirator.

Che figure emergono da questi film? Famosi registi comunicano messaggi diversi. Partiamo da JFK – Un caso ancora aperto. Il liberale e anticonformista Stone nel ’91 diresse Kevin Kostner nel ruolo del procuratore Jim Garrison, deciso a scavare a fondo sulla morte dell’amato Presidente. Il suo omicida, Lee Harvey Oswald, fu una pedina nell’ambito di un colossale gioco di potere che includeva le lobby conservatrici, la mafia e il vicepresidente Lyndon Johnson. Kennedy si sarebbe opposto a un maggiore intervento americano in Vietnam, tarpando le ali ai “falchi” del Congresso e ai guerrafondai conservatori: JFK la colomba, agnello sacrificato dai malvagi che non gli avevano mai perdonato la sua morbidezza nei confronti del regime castrista a Cuba.

Andò veramente così? Probabilmente non lo sapremo ancora per lungo tempo, ma la faciloneria con cui la Commissione Warren archiviò l’uccisione dell’uomo più potente della Terra fa riflettere. Quello che invece manca nel film di Stone, è una maggiore acribia nei confronti del Kennedy Presidente. Non fu un santo, né un pacifista tout court, ma un politico abile (anche se molti storici revisionisti sostengono che il suo ruolo di statista sia stato sopravvalutato) e un grande comunicatore. Fu sotto il mandato Kennedy che si verificarono gravi episodi come la Baia dei Porci, la crisi dei missili sovietici a Cuba e quella di Berlino, nonché l’inizio del coinvolgimento statunitense nell’ex Indocina francese, che avrebbe poi portato al conflitto del Vietnam. Fatti di cui un Presidente non può non essere a conoscenza. Il regista “santifica” idealmente JFK, rendendolo un simbolo di un’America giusta, soggiogata da giochi di potere sbagliati, confluiti nel vile omicidio del quale Oswald fu indicato come capro espiatorio.

Passando a Lincoln, il biopic di Spielberg ricalca la tendenza del regista di confezionare grandi storie per famiglie. Il kentuckyano viene proposto come una figura dall’aura mistica, un probo, un coraggioso, un idealista e un ideologo dalla modernità inconciliabile alla mentalità dei suoi tempi.

Spielberg dimentica volutamente che il Presidente aveva come primo scopo di riunificare la Nazione, a qualsiasi mezzo e che l’emancipazione degli schiavi era una merce di scambio politica per ingraziarsi gli stati a economia commerciale del Nord. Non che Lincoln fosse a favore della “peculiare istituzione”, ma è storicamente accertato che nel suo discorso d’insediamento proclamò:

Se ci fosse chi non desidera salvare l’Unione, a meno di non potere allo stesso tempo salvare la schiavitù, io non sarei d’accordo con costoro. Se ci fosse chi non desidera salvare l’Unione a meno di non poter al tempo stesso sconfiggere la schiavitù, io non sarei d’accordo con costoro. Il mio obiettivo supremo in questa battaglia è di salvare l’Unione, e non se porre fine o salvare la schiavitù. Se potessi salvare l’Unione senza liberare nessuno schiavo, io lo farei; e se potessi salvarla liberando tutti gli schiavi, io lo farei; e se potessi salvarla liberando alcuni e lasciandone altri soli, io lo farei anche in questo caso. Quello che faccio al riguardo della schiavitù e della razza di colore, lo faccio perché credo che aiuti a salvare l’Unione; e ciò che evito di fare, lo evito perché non credo possa aiutare a salvare l’Unione

Lincoln non fu un Gandhi ante litteram e nemmeno un Mandela dell’800: fu un grande uomo politico, in grado di salvare gli Stati Uniti dallo sfascio (a danno dei secessionisti). Nel film di Spielberg si indugia con occhio paternalista sulle sue virtù umane, sulla bonarietà, sulla pietas da Enea, non sulla visione politica unica nel suo genere. E il suo omicidio, portato a termine dal megalomane attore fallito John Wilkes Booth, viene messo in scena come una punizione divina contro il precursore che troppo osò. Un’altra bella storia, ma non la Storia.