Gravity e il “peso” dello spazio
“Gravity” non è il solo film a trattare il tema dello spazio. Tra “2001”, “Solaris” e “Gattaca” ecco come il grande cinema di fantascienza ha affondato lo sguardo nelle profondità di quel nero abisso. Per restituirci essenzialmente l’immagine dell’uomo.
“In space no one can hear you scream…”
Così recitava una delle frasi di lancio più celebri della storia del cinema di fantascienza, una di quelle, tanto per intenderci, destinate a segnare per sempre l’immaginario del pubblico “terrestre” grazie al film-svolta del 1979. Ma la paura, e con essa la fascinazione, nei confronti dell’alieno xenomorfo, nata con “Alien” di Ridley Scott, non era nulla di fronte alle suggestioni che quella frase racchiudeva.
Suggestioni ancora più profonde, legate all’intima essenza dell’uomo e al suo timore ancestrale del vuoto. Un horror vacui che da sempre è condizione esistenziale dell’essere umano fin dalla sua nascita e che lo spazio riesce ad evocare ed amplificare ulteriormente. Il dramma infatti è che lassù “nessuno può sentirti gridare”, anche quando l’angoscia supera qualsiasi soglia di tollerabilità. Il cinema di fantascienza, o, più precisamente, un certo cinema di fantascienza, ha saputo cogliere al meglio sia lo stupore che lo sgomento impliciti nella contemplazione di quell’immenso vuoto compreso tra i corpi celesti dell’universo. E puntualmente, in taluni casi mirabilmente, li ha resi talmente palpabili da far sì che ci conquistassero o perfino travolgessero.
In “Alien”, per esempio, era evidente l’idea di restituire l’incombenza del vuoto cosmico e la paura dell’ignoto in esso celato, attraverso la rappresentazione orrorifica e minacciosa dei suoi esatti opposti, ovvero gli spazi circoscritti e (in)affidabili dell’astronave, proprio quelli che l’intrusione di un organismo estraneo trasformava in trappole micidiali e claustrofobiche budella. A complicare una situazione già “critica” ci pensavano poi la spietata diplomazia dell’A.I. di turno (l’androide Ash)e la complicità elettronica di Mother che trasformavano l’uomo in nulla più che un estraneo all’interno della stessa macchina da lui costruita. Umani fuori e sacrificabili. Parassiti alieni dentro e da preservare. E chissà che Alien, oltre che essere horror potentissimo e seminale, non declini in modo sotterraneo l’idea di un darwinismo sociale applicato però allo spazio profondo. Lì nel cosmo nessuno può sentirti urlare proprio perché, fra le vastità siderali, l’umanità non è che una delle tante specie di passaggio. Il grido della vita soppressa in favore di “altra” vita in fondo non è sempre stato privo di voce?
Tutto questo accadeva nel 1979, cioè 11 anni dopo che il maestro Kubrick aveva consegnato al cinema quel personale trattato sull’uomo per musica, silenzio ed immagini destinato a cambiare il corso della storia. “2001- Odissea nello spazio”, il film-metafora per eccellenza nonché, da oltre quarant’anni, l’oggetto interpretativo preferito dai critici cinematografici, è anche quello che dello spazio offre la rappresentazione più sublime e filosofica.
Al di là infatti dei significati soggettivamente o oggettivamente rintracciabili all’interno dei singoli fotogrammi della pellicola, appare innegabile che Kubrick veda nel cosmo un silenzioso prolungamento dell’essere umano e delle sue macchine. Le astronavi danzano con grazia dentro di esso mentre gli umani fluttuano compiaciuti in assenza di gravità. E tutto sulle note dei valzer di Strauss che paion fuoriuscire da una sorta di grammofono divino situato da qualche parte nell’universo. Certo c’è sempre la minaccia che attenta alla sicurezza dell’uomo, ma stavolta viene da dentro (HAL 9000) piuttosto che da fuori. Non a caso è sempre l’universo alla fine ad accogliere l’astronauta Bowman nel suo abbraccio interstellare al termine di quel trip (psichedelico, interdimensionale?) oltre le barriere fisicamente conosciute. E non a caso offre a lui (feto, essere alieno?) quel ritorno al grembo originario verso cui tutto alla fine converge.
“Mio Dio è pieno di stelle!”
Questa era la frase di Bowman che dava inizio al seguito “2010- l’anno del contatto” di Peter Hyams, ottima science-fiction, imparentata però con Kubrick più per la storia (sempre da Arthur Clarke) che per l’approccio (e del resto si sa che gli “spiegoni” sono sempre meno affascinanti del mistero). Una frase la sua che rendeva perfettamente il senso di estasi dell’astronauta dinanzi alle insondabili vastità siderali. Tredici anni dopo Jodie Foster in “Contact”, durante il suo viaggio attraverso sistemi stellari dalle abbaglianti cromie, dirà commossa che “avrebbero dovuto chiamare un poeta” per descrivere una simile bellezza. Tutto questo mentre il suo viso viene trasfigurato in preda ad una regressione infantile del suo stesso senso di meraviglia. Quando l’idea di spazio sposa anche quella di beatitudine.
E che “noi siamo fatti di stelle” e aneliamo a tornarvi non era solo la grande Margherita Hack a dirlo ma anche un film limpido e magnetico come “Gattaca”. “Dicono che ogni atomo del nostro corpo una volta apparteneva a una stella… forse non sto partendo, forse sto tornando a casa”. Così dichiara malinconicamente Ethan Hawke prima di partire per lo spazio nel toccante e bellissimo finale del film di Andrew Niccol, lasciando intendere che forse è questo il solo testamento-spirituale (e biologico) che a noi umani è concesso di lasciare. E che una tale considerazione giunga al termine di un’odissea vissuta fra ossa fratturate e scorie di DNA disseminate per occultare la propria bio-identità in una società geneticamente totalitaria, non fa che rendere più struggente questo addio alla terra. E anche se lo spazio qui è solo evocato, o si intravede appena lungo le scie dei velivoli spaziali in rotta verso Titano, la sua presenza si percepisce lungo tutto il film. Si torna lì perché, giustamente, è solo ad esso che siamo sempre appartenuti. Però quanto è dura abbandonare quei piccoli atomi che tanto abbiamo amato.
“Houston abbiamo un problema!”
Ma lo spazio (così come è stato il mare secoli prima) non è anche proiezione dell’ansia indagatrice dell’uomo e del suo desiderio di esplorare e colonizzare, impossessandosi magari dell’oggetto della sua ricerca? Conquistare orbite spaziali o piantare bandiere sulla luna possono rappresentare missioni fra le più galvanizzanti per le grandi potenze mondiali, imprese capaci di rinfocolare l’orgoglio nazionale (preferibilmente americano). E se “Capricorn One” ha il coraggio di parlare delle derive di questa brama, mettendo in scena la cospirazione governativa dietro un falso allunaggio (e ogni riferimento alla questione “siamo veramente stati sulla Luna?” non è per nulla casuale), “Uomini veri” ed “Apollo 13” scelgono invece di soffermarsi sugli aspetti più edificanti delle conquiste spaziali. Il primo mettendo in scena la competizione virile fra piloti che si preparano per le missioni, il secondo riuscendo invece nell’impresa di raccontare uno dei più “grandi fallimenti di successo” della storia della NASA. E si sa che filmare un fallimento come se si trattasse di un successo è operazione che riesce bene solo al grande cinema americano.
Per questo ogni tanto appare necessario rifugiarsi in altre visioni e altre cinematografie, rigorosamente non occidentali, per trovare nuove rappresentazioni fantascientifiche dell’universo (perché non di solo Kubrick si vive). “Solaris” del russo Andrej Tarkovskij è, in tal senso, un film speculare a “2001” ma al tempo stesso intrinsecamente diverso, nonostante le affinità tematiche (i protagonisti sono entrambi in viaggio verso un ignoto inconoscibile o non interpretabile). ”Solaris” è permeato di una sensibilità contemplativa perfino antitetica a quella del maestro americano. Se nell’orizzonte spaziale ritratto da Kubrick trova piena rispondenza la sua concezione geometrica e razionalizzante dell’essere umano, in quello evocato da Tarkovskij, e sintetizzato nel pianeta Solaris, viene dato spazio alla dimensione interiore e più “liquida” dell’uomo, metaforicamente rappresentata da una natura ritratta in movimento perenne (come le alghe inquadrate costantemente nel film). Come a voler ribadire che il cosmo, dopotutto, è regolato dalle stesse forze naturali che mettono in moto le nostre inquietudini ed emozioni. E’ in quello che ci rispecchiamo ed esso non è che il nostro riflesso amplificato.
E oggi cosa ne sarà dello spazio in quest’ultimo “Gravity” del talentuoso Cuaròn? Quale significato dietro di esso, al di là della strabiliante avventura in 3D che già promette? Due astronauti alla deriva in un “Open Space” che vanifica qualsiasi ipotesi di sopravvivenza e sembra annientare i confini razionali. Forse è una grande metafora della vita e delle prove che essa ci chiama a sostenere pur di riconquistarla. Si può scegliere di combattere strenuamente o lasciarsi sospingere dagli eventi. Ma chi può sapere se resistere sia meglio che abbandonarsi? Dopotutto è proprio il grande cinema di fantascienza a insegnarci che talvolta è più dolce farsi cingere da quella stretta nera e profonda, illuminata “soltanto” da trilioni di occhi. Perché, dopotutto, quell’abbraccio è amorevole quasi quanto il buio cinematografico…