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Diego Maradona, recensione: l’uomo dietro la divinità

La parabola ascendente e discendendente dei sei anni più belli, intensi e tremendi nella vita di uno dei più grandi, forse il più grande calciatore di sempre

pubblicato 16 Settembre 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 16:46

C’è Diego e c’è Maradona. Viene chiarito a più riprese, quasi a voler concedere delle attenuanti che evidentemente ci sono. Nel 2008 Emir Kusturica avvicinò Dieguito, senza però volerlo necessariamente “spiegare”: ammaliato dal personaggio, in quel documentario il regista serbo ce lo restituì così per come a lui piaceva vederlo, un esito voluto, rispetto al quale perciò non si può che regolarsi di conseguenza. Asif Kapadia invece individua, senza nemmeno troppo sforzo, quel segmento nella carriera di Maradona che lo ha segnato, portandolo in cielo prima, per poi scaraventarlo all’inferno, il tutto nel giro di appena sei anni.

Tutto materiale di repertorio, filmini praticamente di famiglia o spezzoni di riprese fatte dai vari programmi sportivi dell’epoca, copertine di magazine, stralci di giornali et cetera. Ne esce un ritratto asciutto, che narra sì le gesta di un grande, forse il più grande di sempre, ma che al contempo tende a contestualizzare una smitizzazione che si è già consumata nel tempo, con la divinità caduta e ridotta a tratti a parodia di sé stessa, anche se non sempre per colpa sua. Ecco, una delle prime cose che l’ultimo lavoro di Kapadia ci dice è proprio questa: c’è un Maradona reale, che è anche quello sul campo, malgrado si sia portati a credere che pure quello rientri nell’ambito della facciata pubblica, per così dire; e c’è il Maradona dalla corsa inarrestabile, oggi si direbbe quello dei media, lo stesso che ha raggiunto quell’apice riservato a pochissimi nella Storia.

Là, dove l’aria è rarefatta, e l’uomo respira a malapena, malgrado non vi sia folla; al contrario, si è soli. Diego è stato solo per tutta la vita; e quanto più era circondato di gente che voleva toccarlo, baciarlo, o anche solo sfiorarlo, tanto più questo senso di solitudine si acuiva. La tesi non è inedita: la coca ha rovinato uno dei talenti sportivi più luminosi di sempre. Né così inedito è il collegamento con l’ambiente, una Napoli nella cui esasperazione di tutto (di amore, di spettacolo, di bellezza) appare pressoché impossibile non perdersi. Prima ancora che di polvere bianca, Diego fu ebbro, saturo di quello status che i napoletani non solo gli riconobbero ma che non perdevano mai occasione di manifestargli in una maniera così singolare ancorché, come dichiara lui stesso, asfissiante.

Nessun uomo può reggere il peso di diventare dio, di essere adorato come tale, con tutto ciò che ne consegue. La droga non è che una risposta, il resto, anch’esso, una conseguenza. Kapadia, da straniero, aggiunge un elemento spesso dimenticato nell’equazione, ossia l’Italia. Perché una parabola come quella di Maradona, con ogni probabilità, solo in questo Paese, ed in quella particolare versione che fu a cavallo tra gli ’80 e i ’90, poteva capitare. Alcuni nessi sembrano un po’ forzati, se non altro perché buttati lì, senza prendersi la briga di illustrare meglio una dinamica complessa – mi riferisco a quella che viene descritta nel documentario come una persecuzione ai danni dell’allora capitano e numero 10 del Napoli, stando alla tesi del documentario innescata definitivamente dall’eliminazione della Nazionale italiana ad opera dell’Argentina ad Italia ’90.

Ora, non che questo Paese sia in tutto o anche solo in parte avulso da una gestione della Giustizia alquanto bizzarra, con indagini e processi dalle tempistiche quantomeno sospette, a tal punto che qualcuno li definirebbe “ad orologeria”. Tuttavia Maradona, se all’epoca è un personaggio scomodo, non lo è certo per aver infranto il sogno mondiale, ed in questo a Kapadia manca forse il coraggio, o magari la curiosità, nel voler approfondire meglio quali potessero essere state le ragioni per cui Maradona, comunque nient’affatto estraneo a gran parte delle accuse mosse a suo carico, fu effettivamente preso di mira.

Detto questo, in relativamente poche sequenze, abbiamo un quadro di cosa comportò l’avvento di Maradona sulla città partenopea prima e su uno sport intero dopo. A posteriori, probabilmente un calciatore così esagerato, meraviglioso, sublime, per certi versi nietzschiano, se si pensa a quanto le premesse fossero contrarie alla sua affermazione, non è pensabile in nessun’altra piazza. La divinità che gli fu appioppata da quel popolo, con le immancabili deviazioni, va nondimeno compresa: Napoli interpretò senza dubbio in Maradona un segno del cielo, quasi un risarcimento per oltre un secolo che si percepiva come costellato di soprusi; soprusi non ancora rientrati, dato che ancora oggi la città fatica a scrollarsi di dosso certe infamanti etichette, tra realtà e luoghi comuni.

In maniera pressoché lineare, Kapadia tenta di fornire un’idea rispetto a quest’ascesa verso l’Olimpo di un personaggio che, a prescindere da come gli altri lo disegnavano, sentiva di essere più di uno sportivo, uno che si faceva carico di cause ben più grandi, che in fin dei conti nemmeno lo riguardavano, cercando di risolverle con un pallone tra i piedi. E ci credette, ci credette sul serio Diego: ogni gol, ogni vittoria, ma soprattutto ogni volta che col suo ascendente sentiva di essere in grado di plasmare il reale, ebbene, in tutti quei casi Diego non era Maradona e basta, bensì un generale mandato dall’alto. Uno come gli altri ma meglio di chiunque altro.

Senza particolari exploit, il documentario riesce a far filtrare l’immagine di una persona che, dai suoi quindici anni in avanti, ha vissuto tutto, ogni singola vicenda della propria esistenza, al massimo grado. Diego ad un certo punto doveva fermarsi, perché di certa intensità sarebbe morto; cosa che di fatto avvenne, esiliato nella sua Sant’Elena, novello Napoleone, quando di fatto gli fu impedito di stare nell’unico posto al mondo in cui era vivo, ossia sul campo (da gioco, dunque di battaglia). Diego Armando è stato un dio, unico anche nel senso che ad un certo punto fu lui stesso a dichiarare la sua cessata esistenza. Parafrasando dunque quel celeberrimo passaggio de La gaia scienza: «dio è morto, dio resta morto! E l’ho ucciso io». Al calcio, così come ai tifosi napoletani che vissero quel periodo surreale, non resta a tutt’oggi che confrontarsi con tale vuoto.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

Diego Maradona (Regno Unito, 2019) di Asif Kapadia. Con Diego Armando Maradona. Nelle nostre sale il 23, 24 25 settembre 2019.

Festival di Cannes