Nel film di Scola su Fellini (e su se stesso) dietro le lacrime c’è dell’altro: forse il grande “rimorso”…
La commozione è importante, la storia di Federico ed Ettore li riguarda, ma va al di là…
Mi tenta il commento alla Mostra e soprattutto ai premi, Leoni d’oro e dintorni. Ma lo rimando. E’ più urgente soffermarsi sul film Che strano chiamarsi Federico di Ettore Scola. Perché? Perché è solo in parte un film su Fellini ed è sostanzialmente un film su una generazione. Federico è del 1920, Ettore del 1931. Federico mise piede a Cinecittà nel ’41, sui vent’anni; Ettore, accompagnato dal padre, s’infilò nella città del cinema quando aveva sei anni, abitava a Roma, il padre lo condusse. Si tratta di due generazioni diverse. In comune, hanno il fatto di avere la capacità di disegnare e scrivere cose divertenti, curiose.
Nel film visto a Venezia risulta che entrambi furono di corsa presi al “Marc’Aurelio”, in pieno fascismo, senza raccomandazione. Portarono i loro scritti e scarabocchi e subito furono messi al lavoro. Come accade oggi? Beh, no. Entrambi avevano stretto amicizia con i talentuosi colleghi che, come il direttore dello “spregiudicato” giornale, nel film non sembrano proprio ossessionati dalla censura fascista, che pure c’era. Qualche visita di capi e capetti, minacce velate. I due futuri, grandi registi sembrano molto tranquilli, sicuri di se stessi, poco preoccupati dei ricatti ideologici e molto attratti dalle ragazze, dalla carriera o al principio di carrierina che intravedono.
Come accade oggi? Siamo in democrazia, però: possiamo sostenere che nei mass media (incluso il cinema) le appartenenza alle parrocchie ideologiche non contino nelle scelte, negli uffici, nella carità pelosa dei finanziamenti e nelle assunzioni? Beh, no. Entrambi sono riusciti a costruirsi un amore (quello del cinema) con il talento indiscutibile, e lo hanno fatto nel dopoguerra grazie a capitalisti seri e severi, molto interessati al guadagno ma anche e spesso alle scelte degli autori. Gli autori infatti erano di vecchia scuola, compresi Roberto Rossellini e Luchino Visconti, bravi, bravissimi, avevano saputo mettere a frutto l’esperienze del periodo mussoliniano. Lo dimostra il successivo periodo nel neorealismo.
Come accade oggi? Ovvero, si può costruire un rapporto di lavoro e d’amore col cinema, ripeto, oggi? Beh, no. Difficile che un giovane possa fare esperienze con produttori e luoghi di lavoro d’eccellenza. Quasi impossibile. Se accade, bisognerebbe portare un cero a Lourdes o alla vicina Loreto. Il caso di Gianfranco Rosi che vince il Leone con Sacro GRA: sacro e miracoloso, nato per grazie e virtù di un gruppo benedetti da padre Bernardo (Bertolucci).
Torniamo al film di Scola. Lacrime, parole calde, abbracci. La pellicola, dopo la prima parte un po’ impacciata ma essenziale per farci capire il ricordo di Ettore, un forte e perenne “c’eravamo tanto amati”, nella seconda parte è un fuoco di artificio. Di furore e di cuore. Vanno insieme i due, come fratelli, compagni di zingarate e di mignotte, veri amici per la pelle, Federico più visionario e sensuale, Ettore più ragionatore e cauto, ma che lui pervaso di sentimenti. Ettore trascina il non riluttante Federico in un giro di emozioni tutte da invidiare. Hanno vissuto gli anni migliori, prima e dopo la guerra. Miglior ricordo così non poteva essere evocato.
Fantasie. Speranze. Benessere e cinema pane, amore (donne), fantasia (tanta) e tanto companatico (lodi e premi, orgoglio, birbanteria, relax, fama, protezione dei potenti, tutti anche se a poco a poco, dopo i musi storti dei democristiani, conquista ineluttabile. Una vita difficile ma dolce, accarezzata, in un’Italia che era innamorata dei due e dei loro film, i loro veri amanti, le loro vere amanti. Le lacrime di questo “Che strano chiamarsi Federico” sono pioggia benefica. Piacciono al pubblico , ai critici, ai direttori di giornali, alle tv e al mondo de cinema disperato, senza troppe speranze, depresso senza luci e varietà.
La pioggia di lacrime è una risposta al rimorso. Il rimorso che dorme in testa e nella coscienza degli italiani. C’erano tempi in cui si poteva avere o credere nel futuro. La distruzione del Paese è sotto gli occhi di tutti. Il rimorso torna prepotente. E’ stato fatto poco o niente per bloccarlo o almeno frenarlo. Il passato prepotente ci impone la commozione di fronte a ciò che ci è passato di mente. Amnesia che scompare di fronte alla deliziosa, ironica, fortunata, appagante avventura di due simpatici mascalzoni ex “Marc’Aurelio”.
Il rimorso. L’ho visto anche nelle proiezioni del mio film “Concerto Italiano” realizzato per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Gli spettatori si spellano le mani e i loro occhi sono umidi. Di fronte ai fatti (dalla criminalità all’assassinio dell’ambiente). Quando in “Concerto Italiano” la bella, calda voce di Giuni Russo canta i versi di un poesia di Totò “Tu si chiu bella” mentre passano le bellissime dolomiti, il pianto sgorga, regolarmente. In vecchi, meno vecchi, giovani, giovanissimi. Questa è forse la stagione del “rimorso e dei rimorsi”. Dopo quel che è accaduto e che ancora accade. Federico lo sapeva; Ettore lo ha detto, e lo dice.